Storia pandemie scienza medica
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Volgono al termine le festività delle restrizioni e dei vincoli da decreto. Le festività che non avremmo mai immaginato: a distanza, in casa e senza posto aggiunto a tavola. Volge al termine l’anno del Covid-19, con oltre 76,8 milioni di casi registrati e più di 1,69 milioni di decessi in tutto il mondo. Ma è pur sempre passato un anno, inaspettato e tempestoso, fatto di fasi e fasce per colori, limitazioni e speranze disattese. Il primo a inizio di una storia in progress, di cui si aspetta ancora disperatamente l’happy ending.
C’è chi tira le somme e chi sospira ai buoni propositi e davanti quei programmi futuri rimandati, ormai sogni in un cassetto la cui chiave è la paradossale stranezza della ‘normalità perduta’.
Ma, alla fine di queste storia, qual è la morale ereditata? Quali le consapevolezze acquisite? E se esiste un senso, un filo conduttore che tesse le trame nei secoli, qual è?
La storia insegna: sin dagli albori della civiltà, virus e agenti patogeni infestano il mondo. Le pandemie dunque si susseguono da sempre, l’umanità esiste e persiste, ma la paura non si dimentica.
Così come la perdita di ciò che è stato e che non potrà più essere.

Le pandemia nella storia secondo la Scienza Medica

Covid-19 nella storia delle pandemie è la conferenza d’apertura alla terza giornata della VI edizione del Festival della Scienza Medica di Bologna – per la prima volta interamente on line, i cui interventi sono archiviati e disponibili sulla piattaforma VentiVenti di bolognamedicina.it. L’appuntamento divulgativo con la cultura medico-scientifica ha visto un cambiamento nel format per un tema, “Lezioni di medicina. Covid-19”, quanto più attuale e di pubblico interesse. L’intervento “Covid-19 nella storia delle pandemie”, tenuto da Gilberto Corbellini – Direttore Scientifico del Festival, ha delineato una panoramica storica delle epidemie e pandemie che hanno inficiato popoli e società, sottolineando caratteristiche ricorrenti strettamente connesse all’organizzazione di una comunità. La storia delle malattie infettive, epidemiche e pandemiche, ha dimostrato che gli agenti patogeni sfruttano condizioni ecologiche – sempre differenti nel tempo – dettate dall’evoluzione sociale ed economica. Perturbazioni di ecosistemi naturali, provocate da contatti diretti o indiretti con animali selvatici portatori di agenti patogeni nuovi per la specie umana, possono effettivamente costituire una minaccia.
In età preistorica, la ristrettezza dei gruppi umani, l’aspettativa di vita molto bassa ed una risposta immunitaria innata alle infiammazioni virali hanno contrastato lo sviluppo di infezioni acute letali, mentre frequenti erano le malattie e le infezioni croniche. Con l’avvento dell’agricoltura, il destino dell’umanità cambia: le comunità si allargano e nascono le prime città. Con il cambiamento dell’alimentazione, aumentano i rifiuti prodotti e si costruiscono depositi alimentari: tutti fattori che contribuiscono alla nascita di nuovi parassiti responsabili di malattie infettive acute, spesso legata alla presenza dei topi in stretta coesistenza con l’uomo. Gli esempi noti di pandemie nella storia sono infatti tutti accomunati da addensamenti di persone all’interno di stesse mura o villaggi, così come in quei territori circoscritti e civilizzati allora conosciuti: è il caso della peste di Atene raccontata da Tucidide e di quella che decimò la civiltà romana ai tempi di Giustiniano; del vaiolo che devastò il Giappone tra il 735 e il 900 e delle piaghe che invece sconvolsero l’Europa a partire dal Medioevo, la lebbra prima e la peste nera poi (che tra il 1347 e il 1352 uccise la metà della popolazione europea, con tassi di letalità fino al 70%).
Sono i secoli, questi, delle differenziazioni dei ceppi virali e delle prime comparse di virus “moderni” come il morbillo e la rosolia.
Le esplorazioni e le conquiste di nuove terre, a partire dal Cinquecento, diffondono parassiti e virus tra le popolazioni indigene delle Americhe prive di qualunque tipo di difesa immunitaria contro vaiolo (debellato solo nel 1977), influenza e raffreddore. Le epidemie di fatto conquistano un raggio d’azione su scala globale. La Rivoluzione Industriale comporta un incremento delle condizioni d’agio, ma l’urbanizzazione si sviluppa di pari passo con infezioni persistenti e mortali, quali la tubercolosi e la difterite. Il nuovo secolo segna un miglioramento delle condizioni igieniche e quindi il contenimento di tali patologie, ma le influenze si rivelano essere un vero e proprio nuovo allarme sanitario: si ricordano la pandemia, detta Russa, del 1880 (per qualcuno dovuta a un coronavirus) – che registrò da 1 a 3 milioni di morti -, e soprattutto la Spagnola con 20 milioni di morti. Solo dopo il secondo conflitto mondiale, cominciano a diffondersi diversi agenti patogeni zoonotici da ecosistemi selvatici in contatto con attività umane e batteri resistenti agli antibiotici. Il caso dell’HIV rappresenta, per la contemporaneità, il caso di consapevolezza decisivo nella percezione delle malattie infettive.

Le migliori conoscenze e tecnologie medico-scientifiche non sono sufficienti per l’individuazione di virus letali futuri. Superare una minaccia non regala sicurezza e immanità dalle successive. Questo insegna la storia. Dimenticare un problema ormai debellato non può giustificare il sentirsi forti abbastanza da essere insensibili a possibili a nuovi campanelli d’allarme. E il ritorno alle antiche paure ne è la testimonianza.

Storia pandemie scienza medica
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La storia delle pandemia in Letteratura

Il testo ‘Nuove epidemie antiche paure‘, di Paolo Sorcinelli (docente di storia sociale all’Università di Bologna) ed edito da Biblioteca Clueb, è una la giusta chiave di lettura letteraria per inquadrare, dal punto di vista socio-antropologico, la storia dell’uomo a stretto contatto – da sempre – con le pandemie. La pandemia è quel fenomeno di massa che scuote dal basso, riportando alla luce ancestrali paure e il comune senso di rabbia e rassegnazione.
Si parla di una vera guerra ad un nemico invisibile e intangibile che può raggiungere chiunque e qualunque posto.
A seguire l’intervista all’autore, il Professore Paolo Sorcinelli.

Stando alle sue pubblicazioni, risulta particolarmente evidente l’interesse per le varie inclinazioni – più ancestrali e nascoste – della psiche umana. Quali sono le antiche paure di cui scrive, comuni agli uomini da sempre e tramandate nei vari secoli?
«Il colera, per gli individui e i gruppi sociali che lo subirono nel XIX secolo, non fu soltanto una patologia, ma anche un fenomeno culturale e sociale che ripropose una serie di suggestioni e di reazioni che sembravano ormai rimosse. Infatti di fronte a questi eventi epidemici, imponderabili e di massa, ogni volta tendono a riaffiorare rassegnazione e violenza, istinti di autoconservazione e forme esasperate di religiosità, diffidenza verso medici e istituzioni, nonché l’esigenza d’individuare dei capri espiatori, nelle cose, nella natura, nelle autorità, nei medici stessi, negli altri, gli estranei. Di volta in volta sono gli untori, gli avvelenatori, i diffusori. Proprio come ci hanno raccontato prima Boccaccio, poi Defoe e quindi Manzoni e le cronache sull’Aids negli anni ottanta».

Perché, invece, di pandemie ce ne sono state sempre di ‘nuove’? Quali sono i fattori che persistono, quali gli elementi che cambiano?
«I contesti sono diversi, ma le reazioni umane sono le stesse: si trasmettono da città a città, seguendo il corso dell’epidemia, ma ricalcano a livello mentale le suggestioni di analoghi accadimenti del passato. Le paure sono le stesse e si ripetono ogniqualvolta si è di fronte ad una patologia epidemica di cui non si sa bene come prevenire, né si sa assolutamente come curare. Se – durante la peste – l’umanità per guarire confidava nella misericordia divina e la malattia era considerata una punizione dall’alto, oggi per la nostra cultura è impossibile accettare fatalisticamente quel che ci succede. E la stessa idea della natura contagiosa del male e i sistemi per evitarlo non sempre vengono condivisi da tutti.
Oggi ci sono i no-mask, in passato c’era la ricerca di capri espiatori
».

Qual è stata la risposta socio-culturale allora? In quali atteggiamenti e risposte ha riscontrato invece delle differenza durante l’attuale condizione di emergenza sanitaria?
«Di fronte a questi fenomeni, incontrollabili e inspiegabili, un’umanità attonita e angosciata si trova ogni volta a ricercare una spiegazione al dramma: scrutando l’aria, il colore del cielo, il volo degli uccelli, la presenza di insetti e sospettando complotti e veleni. Psicosi e paure che ad ogni occasione si allargano a macchia d’olio, orizzontalmente, all’interno dello spazio geografico, ma con una ripetitività verticale nella dimensione temporale. I contesti sono diversi, ma le reazioni umane sono le stesse: come già dicevo, si trasmettono da città a città, seguendo il corso dell’epidemia, secondo schemi che a livello mentale ci portiamo dietro da sempre.
Così è stato per il passato e così, mi pare, stia succedendo nel presente».

Cosa ci porteremo dietro, nella storia e nella tradizione della genetica umana, da questa pandemia?
«Questo non lo so, ma credo che, una volta trovato un rimedio, cioè un vaccino o una valida terapia, faremo in fretta a dimenticare. Come del resto il mondo ha fatto con la ben più terribile epidemia del 1918-19, conosciuta comunemente come “spagnola”.
Ripeto: non lo so, ma credo che tutto dipenderà soprattutto dalla durata di questa emergenza e – nel caso in cui andasse avanti ancora per parecchio – come sapremo rispondere a livello psichico ed economico. Sia individualmente, sia collettivamente
».

Pamela Valerio

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