Ci sono animali, come i maiali, allevati perché di essi, come si suole dire, “non si butta via niente”, e poi ci sono gli squali di cui si “butta via tutto” e si tengono solo le pinne. Leggende, storie e film hanno contribuito a diffondere un’idea terrificante del grande animale marino, ma ancor più terrificante è la pratica che ogni anno decreta la morte di circa 100 milioni di squali, portando questi ultimi a rasentare l’estinzione. Si tratta dello “shark finning” (tradotto letteralmente “spinnamento dello squalo”) che trova larga diffusione in Europa, nonostante le limitazioni imposte dal 2013. Per questo motivo, è stata lanciata una petizione per fermare una pratica e un commercio fatti di sangue e sofferenza. Lo “shark finning” consiste nel tagliare le pinne degli squali, spesso mentre sono ancora in vita. In seguito, l’animale viene gettato in mare, ancora cosciente e agonizzante. Quest’ultimo senza poter nuotare né filtrare l’acqua attraverso le branchie, poiché privato delle pinne, sprofonda sui fondali oceanici morendo per soffocamento o finendo preda di altri animali, mentre intorno il mare si colora di rosso sangue. Tutta questa sofferenza è intesa a saziare i palati prevalentemente cinesi e vietnamiti. Le pinne degli squali, infatti, vengono usate per la preparazione di una tipica e lussuosa zuppa servita in occasioni speciali come matrimoni o per fantomatiche cure mediche. Sebbene si tratti di una tradizione di matrice orientale, anche i paesi distanti geograficamente e tradizionalmente contribuiscono alla mutilazione degli squali per un mero interesse economico. Le pinne infatti sono vendute a centinaia di euro al chilogrammo; «Si stima che ogni anno vengano esportate dall’UE circa 3.500 tonnellate di pinne, per un valore complessivo di circa 52 milioni di euro.»
L’Europa è dunque tra le protagoniste indiscusse di questo sterminio. Da anni, il vecchio continente ricopre un ruolo centrale nella pesca degli squali e nell’esportazione delle loro pinne destinate ai paesi orientali o ai ristoranti asiatici in area occidentale. Compagnie come Deliveroo hanno cercato di arginare il problema rifiutando le consegne che prevedono questa pietanza, ma ciò naturalmente non è sufficiente a inabissare un commercio che continua da anni. Tre paesi europei, Portogallo, Spagna e Francia sono maggiormente responsabili dello shark finning, accanto agli Stati Uniti d’America, India e Indonesia.
Per fermare questo sterminio i cittadini europei hanno lanciato un’iniziativa “Stop-finning – stop the trade”, per chiedere all’Ue di vietare l’importazione, l’esportazione e il transito delle pinne di squalo all’interno dei suoi confini. In realtà un passo era stato già fatto con un regolamento del 2003 modificato poi con un altro varato dieci anni dopo. Si tratta del “Fins naturally attached” (“Pinne naturalmente attaccate”) del 2013, cioè dell’obbligo da parte dei pescatori di sbarcare con l’animale intatto nel porto, dove possono poi essere esportate le pinne, senza prevedere deroghe o permessi speciali, a differenza del primo provvedimento del 2003. Questo sarebbe dovuto servire a contrastare le crescenti mutilazioni, ma non è stato così. Per via dei difficili controlli in mare aperto, il commercio illegale continua e frutta ogni anno milioni di euro macchiati di illegalità e disumanità.
Da questo terreno è nata dunque la petizione che il 31 gennaio 2022 ha raccolto più di un milione di firme e che ora attende di essere discussa dalla Commissione europeo. L’obiettivo è quello di «estendere il REGOLAMENTO (UE) n. 605/2013 anche al commercio di pinne e chiediamo pertanto alla Commissione di elaborare un nuovo regolamento che estenda la disposizione delle ‘pinne naturalmente attaccate al corpo’ a ogni forma di commercio di squali e razze nell’UE.»
Per alcuni sembrerebbe specismo interno agli animali, ma la salvaguardia degli squali, in particolare di alcune razze come lo squalo mako e la verdesca, va a tutela dell’ecoturismo, della biodiversità e dei meccanismi marini, che a causa dello “shark finning” potrebbero subire importanti squilibri. Gli squali, infatti, «sono definiti top predators, predatori apicali. In ecologia si usa immaginare la rete trofica come una sorta di piramide: al vertice si trovano i predatori, come gli squali appunto, che regolano tutti ciò che si trova sotto di loro. È un meccanismo chiamato top down control e significa che ogni predatore controlla le popolazioni mangiando le specie sotto di lui.». In pratica: «tendono a isolare come prede piccoli pesci solitamente deboli e malati, rendendo quindi possibile il mantenimento in salute degli altri e impendendo di volgere verso un numero di pesci troppo grande da sopportare per l’ecosistema. Sono inoltre fondamentali nella regolazione della produzione ossigeno, grazie al loro cibarsi di predatori che a loro volta si nutrono di plancton, che genera ossigeno.»
Il grande animale marino, inoltre, per quanto spaventoso agli occhi di molti è particolarmente fragile, e per una pratica crudele che non distingue taglie e cicli di vita e per il lento processo di crescita e maturazione in cui sono involti. Secondo il portale “The IUCN Red List of Threatened Species” il 37% degli squali è a rischio estinzione. Tutelarli dalla mutilazione delle pinne, dunque, non è solo una lotta degli animalisti, ma una responsabilità e un dovere di ogni essere umano razionale verso il vitale equilibrio della natura.
Alessio Arvonio