” Oceani fuorilegge “ è un libro di Ian Urbina, giornalista investigativo del “New York Times”. Nel corso della sua carriera Urbina ha vinto un premio Pulitzer e un Polk Award. Molti dei suoi testi sono stati la base per sceneggiature cinematografiche, guadagnando una nomination per un Emmy Award. “Oceani fuorilegge” è il risultato di una serie di articoli da cui è stato poi tratto il libro, insignito di diversi premi internazionali.
Dai pescherecci alle barche della guardia costiera, dalle navi di pattuglia della polizia marittima alle imbarcazioni di ONG e ambientalisti (come Greenpeace e Sea Shepherd): utilizzando i mezzi più disparati, Urbina ha viaggiato per mare per cinque lunghi anni. Per realizzare i suoi articoli si è relazionato con contrabbandieri, pirati, trafficanti e schiavisti, così come con ecologisti, medici e volontari.
Tema centrale di “Oceani fuorilegge” è l’impunità: l’incertezza del diritto che rende tutto ciò che viene commesso in mare difficilmente classificabile. La denuncia è rivolta ad una società che chiude troppo spesso gli occhi di fronte a ciò che succede in acque apparentemente lontane da noi, ma che poi influenza inevitabilmente la nostra vita.
«Gli oceani sono l’ultimo Far West in cui chiunque può fare qualsiasi cosa, perché nessuno lo sta guardando».
Scarichi alla deriva in oceani fuorilegge
L’oceano è da sempre considerato come uno spazio illimitato in grado di assorbire e metabolizzare di tutto. Questo errato pensiero ha fatto sì che l’essere umano si sentisse legittimato a riversarvici praticamente qualsiasi cosa: petrolio, rifiuti, effluvi chimici, fino ad arrivare a strutture come piattaforme petrolifere. Ian Urbina iniziò il suo viaggio per condurre indagini circa lo sfruttamento di esseri umani in mare. Tuttavia, man mano che la sua esperienza andava avanti, si rese conto che gli abusi a discapito di persone erano solo una minima parte di un sistema viziato. Non poteva studiare gli sfruttamenti che avvenivano negli oceani senza studiare gli oceani stessi, come organismi viventi parte fondamentale della storia.
In uno dei capitoli di “Oceani fuorilegge”, “Scarichi alla deriva“, Urbina racconta l’esperienza di Chris Keays, un ingegnere dipendente su una nave da crociera americana. Il 23 agosto 2012 Keays si accorse che sulla Caribbean Princess era installato un dispositivo illegale: un “tubo magico”. La magia che compiva questo marchingegno era far sparire l’olio esausto dalla nave, insieme ad altri liquidi molesti. Invece di raccogliere le acque altamente tossiche e scaricarle in porto, come previsto dalla legge, la nave rilasciava tutto in oceano. Uno sversamento illegale che faceva risparmiare al proprietario della Carnival Corporation, a cui apparteneva l’imbarcazione, milioni di dollari.
«Le navi sono diventate così grandi che assomigliano a città galleggianti e come succede in ogni città ci sono parti di cui la gente preferisce non sapere nulla».
Le navi da crociera sono enormi agenti inquinanti che bruciano gigantesche quantità del combustibile più sporco che esista sul mercato. Il “bunker” è una sorta di catrame più solido che liquido e va trattato prima di essere utilizzato come carburante. Tale processo di trasformazione produce la “morchia”, uno scarto velenoso che necessita di un processo di smaltimento molto costoso. Ma la morchia non è il solo scarto che producono le navi da crociera; ci sono le cosiddette acque nere (liquami di centinaia di gabinetti) e le acque grigie (provenienti dal lavaggio dei piatti e dei vestiti per le migliaia di passeggeri) che viaggio dopo viaggio vengono rilasciate nelle acque oceaniche.
Quando Keays denunciò la sua scoperta sul “tubo magico” fu aperta un’inchiesta che portò ad un processo. La Carnival definì isolato il caso della Caribbean Princess. Tuttavia, le prove documentali raccolte dimostrarono che lo scarico del combustibile era una pratica diffusa sulle imbarcazioni della compagnia, che nel 2016 venne multata per quaranta milioni di dollari.
Le dannose prassi storiche
La pratica di scaricare in mare olio e altri scarti è stata legale fino a poco tempo fa. Un centinaio d’anni fa, infatti, il caso della Caribbean Princess non avrebbe destato nessuno scalpore. Un esempio eclatante di smaltimento in mare, che oggi ci parrebbe folle, fu quello perpetrato da Usa, Regno Unito e Unione Sovietica dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le tre potenze vincitrici decisero di caricare su navi circa un milione di tonnellate e di bombe inesplose, insieme ad altre munizioni chimiche, e di gettarle in acqua. Questa pratica ha causato non pochi incidenti: un caso emblematico è quello accaduto nel 1965, anno in cui in Virginia un peschereccio saltò in aria in seguito al carico involontario di una di queste bombe.
Solo nel 1993 fu dichiarata illegale la pratica di scaricare rifiuti nucleari e reattori di scarto. Più di dieci Paesi lo avevano fatto nell’Artico, nell’Atlantico settentrionale e nel Pacifico. Tutto quello che era rimasto da smaltire dopo il 1993 fu trasferito sottobanco a trafficanti che operavano nel Mediterraneo, nel Sudest asiatico e a largo delle coste africane. Una delle organizzazioni criminali che si occupavano di questi illeciti era la ‘ndrangheta calabrese, responsabile di centinaia di barili di scorie radioattive inabissate nel Mediterraneo e al largo della costa somala.
Tuttavia, come riportato da Urbina, gli agenti inquinanti giungono nell’oceano anche per via aerea o direttamente dalla terraferma. Tutti i rifiuti che arrivano dalle correnti d’acqua (fiumi o fognature) giungono poi in mare e creano, a causa delle correnti marine che li fanno turbinare e accumulare, un gigantesco vortice galleggiante grande come il Texas (il cosiddetto Pacific Trash Vortex).
L’inquinamento portato dall’aria è una forma poco visibile, ma distruttiva, di smaltimento nell’oceano. Negli ultimi duecento anni la quantità di mercurio nei novanta metri più superficiali degli oceani è triplicata a causa dell’attività umana. La quantità di anidride carbonica nell’aria è aumentata del 25% dal 1958 ad oggi. Questa eccedenza si dissolve nell’acqua creando acido carbonico e livelli di acidità troppo alti negli oceani.
Il vero problema è che, malgrado tutta l’attenzione riservata alle fuoriuscite di petrolio accidentali, molto del più combustibile viene scaricato in acqua di proposito. Al largo della costa indonesiana, vicino Bali, un tubo di oltre un metro di diametro collega una miniera di rame e oro all’oceano Indiano. Il tubo riversa 170.000 tonnellate di fango tossico al giorno. Secondo le ricerche del giornalista, almeno altre sedici miniere in otto paesi, compresa la Norvegia, si liberano dei detriti simili scaricandoli in mare.
Le zavorre, le navi da crociera, gli impianti fognari, le aziende agricole e altri settori, producono un insieme di rifiuti che insieme vanno a creare maree rosse e altre dannose esplosioni di alghe. Queste ultime sottraggono ossigeno alle acque, uccidono la fauna marina e hanno anche un forte impatto sulla salute dei consumatori di prodotti ittici.
Un improbabile esperimento
«Le compagnie petrolifere e i governi non erano gli unici rei di scaricare rifiuti a largo. Lo facevano anche ricercatori e imprenditori in genere con la scusante della scienza».
Nel 2012 Russ George, imprenditore e ricercatore marino, noleggiò una barca e vi caricò oltre un centinaio di tonnellate di polvere di ferro. Le riversò nelle acque internazionali del Pacifico. Si trattava di un esperimento volto a contrastare gli effetti del cambiamento climatico e accelerare il ripristino dell’allevamento dei salmoni per gli Haida, una popolazione nativa di un arcipelago al largo della Columbia Britannica settentrionale (Canada). In teoria, offrendo all’oceano i nutrienti di cui era carente, si sarebbe stimolata la fioritura del plancton che avrebbe risucchiato l’anidride carbonica. Dopo che la notizia dell’esperimento fu diffusa, la reazione di tanti Governi fu quella di denunciare l’iniziativa di Russ. Questi promise di continuare comunque il suo esperimento dichiarando che effettivamente dai satelliti sembrava che nella zona ci fosse stata un incremento nella quantità di plancton.
Urbina ritiene difficile capire se tale esperimento avesse raggiunto o meno il suo scopo, poiché non c’era alcuna supervisione esterna o metodo scientifico standardizzato a cui fare riferimento. Quello che risulta chiaro è però che più la preoccupazione per la crisi climatica aumenterà, più è probabile che si moltiplichino iniziative del genere in mare aperto, dove i controlli non sono assicurati. La “fertilizzazione” di Russ George si posiziona in un’area grigia del diritto: non è considerata lecita, ma non è neanche espressamente vietata. Cosa impedirà ad altri privati di commettere esperimenti potenzialmente pericolosi?
Crimini senza testimoni
Per il diritto del mare, al di fuori delle acque territoriali di una nazione non possono essere condotti controlli. In alto mare non è possibile abbordare un vascello senza che il capitano abbia acconsentito. Anche se gli investigatori trovassero prove di reati, ma al di fuori dei confini nazionali, sarebbe molto difficile intentare un processo.
Inoltre, quando la Guardia Costiera trova prove sufficienti per sequestrare un’imbarcazione deve il prima possibile procedere ad arrestare e dividere l’equipaggio. I marinai, tendenzialmente, tendono ad seguire un preciso codice d’onore, dove l’omertà regna sovrana. Persuaderli a dire la verità sui metodi di smaltimento rifiuti è molto più facile quando hanno poco tempo per concordare le versioni. Scaricare rifiuti di ogni tipo porta indubbiamente denaro, o quanto meno è sicuramente un modo per risparmiarlo. I testimoni sono pochi e facilmente corruttibili e le vittime dirette difficilmente individuabili nel breve periodo.
La denuncia contenuta in “Oceani fuorilegge” evidenzia la necessità di una presa di coscienza collettiva. Il diritto va implementato e le pene dotate di un’efficacia deterrente maggiore, ma fintantoché gli oceani verranno considerati come posti lontani di cui non curarsi, le cose rimarranno immutate. Puntare i riflettori su ciò che accade in mare, comprendendo come ogni singola azione abbia conseguenze sull’intero pianeta, sembra l’unico modo per avviare il cambiamento di cui abbiamo disperatamente bisogno.
Sara Valentina Natale