La città di Napoli vanta infiniti siti archeologici, tesori e monumenti. Molti di questi, purtroppo, sono lasciati nell’incuria più totale. Analizziamo il problema dal punto di vista di due addetti ai lavori, due archeologi partenopei che ci esporranno la gravità della questione attraverso alcuni esempi lampanti.

È la storia a fare di noi ciò che siamo, a delineare il passato. Il progresso di una determinata società si misura anche in base alla sua capacità di preservare il proprio patrimonio storico-culturale; in altre parole, in base al rispetto e alla tutela che dedica alla cultura materiale, in primis ai monumenti. Da questo punto di vista la città di Napoli si presta ad erigersi quale metafora calzante di ciò che troppo spesso accade in molte altre zone d’Italia, ossia il convergere di tutte le attenzioni, i fondi e gli sforzi verso pochi, celebri siti archeologici a discapito di tutti gli altri.

Daniele Petrella, presidente dell’IRIAE (International Research Institute for Archaeology and Ethnology), laureato in archeologia e storia dell’arte del Giappone presso l’Orientale di Napoli, già noto per aver riportato alla luce la flotta di Kubilai Khan, scoperta che ha riscritto una pagina della storia del mondo, ha introdotto il problema dicendo:

«La mia visione è molto critica in quanto archeologo che ha dedicato la vita al recupero della storia attraverso la cultura materiale. Qui a Napoli c’è un problema di fondo: per noi che siamo dell’ambiente si percepisce molto che l’attenzione viene portata squisitamente ed unicamente, nemmeno in maniera molto pregnante, verso quelle realtà monumentali che generano necessariamente un immediato indotto turistico. Anche in questi casi, però, gli investimenti che vengono fatti non sono mai gestiti adeguatamente, cioè c’è sempre un problema di base che è quello della gestione un po’ arbitraria dei fondi quando invece, se si lasciassero gestire a nuove leve della museologia, del turismo, dell’archeologia, del restauro e quant’altro, secondo me andrebbero molto meglio. Questo significherebbe ovviamente investire questi finanziamenti in maniera più piena, totale e mirata»

napoli, tesori
Complesso archeologico di San Carminiello ai Mannesi

Abbiamo chiesto a Daniele Petrella di farci alcuni esempi per meglio comprendere la gravità della questione: «Nello specifico mi vengono in mente alcuni siti archeologici e voglio focalizzare l’attenzione su questi perché, a differenza di tanti altri che hanno una notorietà diversa, questi vengono chiamati “siti minori”, ma in realtà sono dei veri e propri patrimoni per noi, non solo da un punto di vista artistico e storico, ma anche culturale e antropologico. Qualche esempio: da un punto di vista archeologico abbiamo un sito bellissimo che è Carminiello ai Mannesi dietro Via dei Tribunali che è un sito stupendo, scavato negli anni ‘80 che oggi è lasciato totalmente in balia dell’immondizia ed è un sito perfettamente visibile, quindi valorizzarlo potrebbe significare un nuovo punto di arrivo per il turismo nel centro, nel cuore della città di Napoli. 

Poi ci sono siti che invece all’apparenza sembrano essere rientrati in un sistema virtuoso di restauro attraverso sponsorizzazioni private, ad esempio il castello Aragonese a Via Marina attualmente ancora oggetto di restauro. Ho notato che quando passo con la macchina, ogni tot di tempo cambiano il cartellone pubblicitario dove ci sono delle società, ditte o aziende che stanno sponsorizzando i restauri. La cosa è molto bella perché questo è il sistema europeo di lavorare che non si basa più esclusivamente sul finanziamento pubblico ma anche sull’intervento privato però, ogni volta che passo, non vedo alcun tipo di movimento, sembrano dei restauri finti, stanno lì coperti, uno si immagina che dietro stiano lavorando ma se si guarda bene dietro non c’è nessuno.

O ancora, un’importante realtà di cui però nessuno parla: noi abbiamo Piazza Mercato con la basilica della Madonna del Carmine, è una piazza per Napoli importantissima dove sono avvenuti episodi di grande rilevanza. Fin dal 1270 quando questi carmelitani portarono qui quest’immagine della Madonna Bruna dal monte del Carmelo in una nicchia, poi ci costruirono la basilica e divenne una delle icone principali della cristianità campana, anche perché si impiantava sul culto di Iside che era già molto forte all’epoca e la Madonna bruna è chiaramente una ricostruzione, una reinterpretazione cristiana dell’iconografia di Iside. Il campanile dove si fa la festa il 16 luglio viene fatto incendiare simbolicamente con dei fuochi d’artificio, questo campanile è in restauro non so da quanto tempo ed ha ancora le impalcature, la piazza che dovrebbe rappresentare un punto nevralgico, soprattutto in occasione di tale ricorrenza, è stata invece abbandonata a se stessa. Questi siti sono detti ‘minori’ ma hanno in realtà un’importanza enorme per la città di Napoli, vengono camuffati con dei restauri ma in realtà questi fondi non si sa che fine fanno perché i lavori non si fanno, sono fermi». 

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Basilica del Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore

Al netto delle critiche, fortunatamente non mancano delle iniziative virtuose. Alcune di queste vengono riportate da un altro nome illustre del panorama archeologico partenopeo: Ivan Varriale. Membro dell’Executive Board dell’IRIAE, Ivan Varriale è fondatore e presidente dell’associazione ArcheologiaNapoli, laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università Suor Orsola Benincasa e specializzato in Archeologia Classica presso l’Università della Basilicata. Ivan Varriale ci ha riportato alcuni esempi positivi, come quello delle Catacombe di San Gennaro riportate letteralmente alla luce attraverso Officina dei Talenti, una cooperativa di giovani del Rione Sanità, utilizzando la tecnologia LED per preservare il vasto patrimonio pittorico e musivo. O ancora, la Chiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, la cui facciata è stata completamente restaurata e la Galleria Borbonica, restituita alla collettività grazie agli operosi sforzi di un gruppo di speleologi che si sono occupati di ripulire intere aree della galleria e di creare in seguito dei percorsi turistici.

Conclude Ivan Varriale corroborando, in un certo senso, il concetto già esposto dal collega: «Noi abbiamo un patrimonio culturale eccezionale e dovremmo puntare su quello. Anche se l’attenzione confluisce tutta sui siti maggiormente visitati dai turisti, ci sarebbe bisogno di indirizzarli anche altrove, verso monumenti e siti altrettanto importanti che sono tenuti meno in considerazione a causa della mancanza di fondi o di infrastrutture. Gestisco un’ associazione culturale che si occupa di valorizzazione del territorio, sul nostro sito ci sono tutta una serie di itinerari fuori dalle rotte turistiche, il fine è proprio quello di implementare le visite».

Dunque, come si evince chiaramente da quanto esposto, quella di trascurare siti ‘minori’ è pratica comune, nonché problema antico. Basti pensare alla lettera redatta nel 1519 da Baldassar Castiglione indirizzata a Papa Leone X che fungeva da resoconto dello stato di degrado di numerosissimi monumenti di Roma. Da un lato ci si lamentava delle devastazioni barbariche e dall’altro era presente l’incuria dei romani stessi nei confronti delle rovine dell’antichità. Citando la suddetta, possiamo quindi concludere che è sempre e comunque la superficialità di noi tutti a produrre scempi “ch’Annibal, non ch’altri, farian pio”.

Sara Cerreto

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