In un articolo pubblicato il 3 agosto, il colonnista britannico Steve Richards, sostenitore del remain, considera un nuovo referendum l’unica via d’uscita dall’impasse politica della Brexit per la leader del Regno Unito Theresa May.

Secondo Richards, Theresa May, la quale non gode di una maggioranza stabile in Parlamento, dovrebbe rimettere la decisione finale al popolo britannico, chiamandolo a un referendum le cui opzioni sarebbero una Brexit nei termini in cui prenderà forma dopo l’accordo con le istituzioni europee oppure una Brexit “senza accordo”.

Tale scelta permetterebbe a Theresa May di negoziare un accordo sulla Brexit più “soft, senza doversi preoccupare di accontentare i conservatori, sostenitori della linea dura, o di convincere i laburisti ad appoggiare le sue scelte. Sarebbe tutto nelle mani del popolo, il quale non potrebbe poi lamentarsi di essere stato tradito dalla classe politica.

Si tratterebbe di un seguito al referendum del 2016, dal quale la May non potrebbe che uscire vincitrice: messi davanti a una tale decisione, difficilmente i cittadini voterebbero il “non accordo“, consci del rischio che questa scelta comporterebbe.

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(liberation.fr)

Gli scenari possibili per il Regno Unito

Agli inizi di luglio il governo di Theresa May ha reso pubblico il cosiddetto Piano Chequers, al quale è succeduta una vera e propria Carta Bianca di 140 pagine contenente una serie di punti chiave relativi alla Brexit.

Per quanto riguarda la questione dell’economia e dei dazi doganali, il Regno Unito propone un leave a metà: da una parte si impegna a mantenere una regolamentazione comune sui prodotti, così da continuare a commerciare con l’Unione senza problemi, dall’altra si riserva la possibilità di divergere da queste stesse regole e di stringere accordi separati con altre nazioni.

Questo punto è particolarmente delicato per quanto riguarda l’unico confine terrestre UK-UE, in Irlanda: il Regno Unito si impegna a evitare qualsiasi frizione doganale proponendo una versione ‘facilitata’ dei dazi doganali. Secondo il progetto britannico, il Regno Unito applicherà le tariffe europee ai prodotti destinati al mercato europeo, mantenendo tariffe speciali per il mercato britannico.

I confini della Brexit

Questa soluzione renderebbe più graduale il cambiamento sull’isola irlandese, ma al tempo stesso permetterebbe alla May e ai conservatori di perseguire il sogno di una Gran Bretagna autonoma e aperta verso l’esterno, in grado di commerciare liberamente con il resto del mondo e di imporre le proprie tariffe.

Un sogno che Theresa May condivide con il governo Trump, al quale si avvicinerebbe ulteriormente, soprattutto nel caso in cui a trionfare fosse il “non accordo“.

Tuttavia, se non fosse possibile creare un’area di libero scambio con l’Unione, la quale segue una politica protezionista per quanto riguarda il commercio esterno, il Regno Unito si vedrebbe costretto a cambiare completamente partner commerciali.

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Il segretario UE per la Brexit Michel Barnier (AFP/Getty Images)

Il segretario UE per la Brexit Michel Barnier si è prontamente opposto alle soluzioni prospettate dal Regno Unito:

«L’Unione Europea non può delegare l’applicazione della politica e delle norme doganali, dell’IVA e della riscossione di queste imposte a uno stato terzo non sottoposto alle strutture di governo europee».

Senza dubbio l’Unione Europea è interessata a mantenere un’area di libero scambio con il Regno Unito, sebbene non sia pronta ad accettare la proposta britannica di rimanere in alcune agenzie europee senza aumentare i contributi versati a queste istituzioni. Ad ogni modo, in un articolo pubblicato la settimana scorsa, Barnier sostiene che al momento c’è un intesa dell’80% tra negoziatori europei e britannici.

Questa dichiarazione è di gran conforto per la Gran Bretagna, soprattutto dopo le proiezioni catastrofiche che i media britannici hanno fatto della possibilità di un’uscita senza accordo. Il leader della Banca d’Inghilterra aveva già messo in guardia le autorità e i cittadini da questo scenario, profetizzando un aumento dei prezzi sproporzionato.

Theresa May e l’UE

Senza dubbio la May non è rimasta con le mani in mano in attesa di una risposta di Barnier, ma ha subito messo in moto la macchina diplomatica cercando di ottenere il consenso dei leader europei. Lo scorso weekend si è recata personalmente alla residenza estiva del presidente Macron per incontrarlo e discutere della Brexit, nonostante quest’ultimo abbia dichiarato che è giurisdizione degli organi europei decidere in merito all’uscita del Regno Unito.

È un braccio di ferro che si risolverà solo con il concilio europeo previsto per settembre – mentre il 29 marzo 2019, data nella quale si dovrebbe concludere ufficialmente la Brexit, incombe.

Lo storico britannico Timothy Garton Ash ha messo in guardia tanto i suoi concittadini quanto le Istituzioni europee dalla possibilità che un accordo troppo rigido nei confronti del Regno Unito generi una reazione equiparabile alla Germania di Weimar.

Senza dubbio un accordo “punitivo” genererebbe la rabbia dei cittadini britannici favorevoli alla Brexit, tuttavia è necessario che l’Unione Europea si mantenga ferma su alcune linee fondamentali dalle quali dipende l’esistenza stessa, da un punto di vista ideologico e politico, dell’Unione.

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La premier britannica Theresa May (Vanity Fair)

La questione immigrazione

Il Regno Unito intende porre fine al libero movimento delle persone riprendendo il controllo sui propri confini. Nella Carta si fa riferimento a permessi facilitati da applicare ai cittadini europei, soprattutto per quanto riguarda il turismo e i permessi di studio per le “menti brillanti”.

Tuttavia la realtà dei fatti è che già da cinque anni Theresa May, anche prima di essere eletta premier, ha messo in atto una dura campagna per rendere il Regno Unito “ostile” agli occhi degli immigrati europei, soprattutto per i senza dimora.

Solo nel 2017, 5.300 cittadini europei sono stati rimpatriati, con un aumento del 20% rispetto al pre-Brexit, con la scusa di aver fatto un “uso improprio” della libertà di movimento garantita dall’Unione Europea – in altre parole per aver perso la casa, nonostante molti abbiano continuato a lavorare e a pagare le tasse al Regno Unito.

Questi provvedimenti emanati dal Ministero degli Interni sono stati dichiarati discriminatori dalla Corte Suprema Britannica, la quale ha posto fine ai rimpatri già dal dicembre 2017. Ciononostante i danni causati dagli arresti arbitrari, dalle requisizioni di documenti e dall’incarcerazione in centri di detenzione hanno ancora un effetto pesante sulla vita delle persone.

Inutile dire che il 99% della manodopera agricola del Regno Unito è costituita da immigrati est-europei e che il settore ha già iniziato a risentire del clima inospitale creato da queste politiche discriminatorie. I proprietari terrieri delle coltivazioni di frutti di bosco stanno già iniziando a far sentire la propria voce, rivendicando la necessità di accogliere i lavoratori stagionali senza i quali non è possibile portare a termine il raccolto e minacciando l’aumento dei prezzi.

Le politiche escludenti messe in atto dal governo di Theresa May non possono che essere osteggiate dalle Istituzioni europee. I negoziatori europei dovrebbero sicuramente tenere conto delle conseguenze economiche delle proprie decisioni, senza però dimenticare che in questo momento è anche necessario dare un messaggio chiaro a tutti gli Stati membri su quali siano effettivamente i principi che guidano l’Unione Europea.

Claudia Tatangelo

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