Le relazioni con vicini “scomodi” come Turchia e Russia mostrano a pieno le contraddizioni dell’UE e le sue difficoltà nel trovare un equilibrio tra la narrativa che regge l’unione stessa — dove la coesione dei suoi membri si fonda sulla condivisione dei valori democratici comuni — e gli interessi geopolitici e le esigenze di sicurezza, centrali in un sistema internazionale che ha ormai da tempo messo in discussione il ruolo privilegiato dell’Europa e, più in generale, dell’Occidente.

Ogni mattina un capo di Stato dell’UE si sveglia e sa che la sua missione sarà quella di promuovere i valori delle vecchie democrazie nel mondo. Sa che l’Europa fonda la sua coesione sulla tolleranza, la non discriminazione e la giustizia. Certo anche su interessi economici ed esigenze di sicurezza, ma questa è un’altra storia. O forse no.

La reazione dell’Unione alle ambizioni di Turchia e Russia ci raccontano una storia diversa, dove i toni molto diversi utilizzati non possono non far riflettere sull’attenzione selettiva dell’UE verso i diritti umani, l’autodeterminazione dei popoli e i processi democratici, tanto da far sorgere il sospetto che i diritti di alcuni popoli valgano meno agli occhi delle potenze occidentali.

Perché le derive autoritarie ed espansionistiche della Russia di Putin sono state accolte da contromisure mentre l’atteggiamento verso Erdoğan sembra essere molto più accondiscendente nonostante le ripetute violazioni dei diritti umani perpetuate dal suo regime, anche a danno di cittadini comunitari?

La difesa della democrazia è una componente importante dell’identità europea ma non è di certo l’unico elemento che muove l’atteggiamento esterno dell’Unione. Nel tentativo di mediare tra i numerosi interessi dei Paesi membri sempre meno ben disposti verso il sacrificio del proprio potere sovrano per il benessere della comunità, l’UE si ritrova a dover compiere un difficile calcolo dei rischi e delle opportunità dove il fine ultimo è la sua sopravvivenza e il mantenimento di un equilibrio internazionale in cui possa ancora sedere al tavolo dei vincenti.

Ed è proprio la messa in discussione dell’equilibrio internazionale che rende complesse le relazioni con la Russia di Putin. 

Infatti, la “pace fredda” tra Occidente e Russia, caratterizzata da una diversa interpretazione dell’ordine mondiale, ha reso faticoso ogni tentativo di ristabilire un nuovo balance of power che sia realmente sostenibile. Mentre la Russia continua a percepire se stessa come una grande potenza meritevole di un ruolo centrale nelle dinamiche internazionali, l’UE ha basato la sua esistenza sull’idea di una comunità di Stati uniti da valori condivisi che cedono volontariamente parte della propria sovranità con l’obiettivo di una sempre più stretta connessione economica e culturale.

Il tentativo dell’Unione di aumentare le relazioni con Paesi storicamente vicini alla Russia, anche in vista di un possibile allargamento dell’Unione ad est per ritrovare un nuovo equilibrio post-Brexit, è percepito dalla Russia come un’intromissione nella propria area di interesse e quindi un attacco alla propria potenza.

L’annessione della Crimea va letta in questa cornice e la dura condanna dai Paesi europei non trova nessun limite nel “principio di autodeterminazione dei popoli” nell’ottica delle potenze occidentali. La presenza di una maggioranza di origine russa nella regione e i profondi legami storici che legano Russia e Ucraina cedono, infatti, a favore della salvaguardia dell’ordine europeo che non deve essere messo in discussione.

In questo quadro, però, le tanto discusse sanzioni economiche verso la Russia potrebbero rivelarsi un’arma a doppio taglio. Allentare i rapporti con la Russia, infatti, potrebbe avere come conseguenza uno spostamento di questa sempre più a est e quindi un ulteriore riassetto degli equilibri globali in cui l’Europa perde ulteriormente potere.

Troppo importante invece è il ruolo della Turchia per la sopravvivenza dell’Unione tanto da mettere in secondo piano le ripetute violazioni dei diritti umani e la repressione delle minoranze da parte del regime di Erdoğan.

La Turchia è un attore chiave nella gestione della crisi umanitaria che ha portato migliaia di siriani alle porte dell’Europa. Il controverso accordo sulla gestione dei flussi migratori in cambio della liberalizzazione dei visti e di ingenti aiuti economici ne è un chiaro esempio.

A ciò si aggiunge l’importanza di una cooperazione nell’ambito della sicurezza e delle politiche di contrasto al terrorismo, in un momento storico in cui l’attenzione verso il possibile rientro in Europa dei cosiddetti Foreign Fighters a seguito della sconfitta territoriale dello Stato Islamico rende indispensabile un attento controllo delle frontiere esterne e una efficace cooperazione degli organi di polizia e di intelligence.

In questa ottica le risoluzioni del Parlamento Europeo, che sospendono momentaneamente le trattative per l’entrata della Turchia nell’UE, diventano un efficace strumento per riaffermare la retorica europea che condiziona il dialogo con l’Unione al raggiungimento di alti standard democratici e di rispetto dei diritti senza però incidere realmente sullo status quo. La cooperazione con Ankara nei settori ritenuti strategici può continuare.

Paradossalmente l’atteggiamento ostile ma non troppo dell’Europa è funzionale anche al mantenimento del potere di Erdoğan che può abilmente presentarsi come il difensore dell’identità turca nei confronti di un Europa percepita come sempre più islamofobica. 

Adesso, a pochi giorni dalle elezioni in Turchia che potrebbero cambiare il volto del Paese, l’Unione Europea guarda con apprensione ai risultati, sicura, comunque, che in nessun caso gli attori coinvolti potranno permettersi di non considerare l’importanza delle relazioni e la cooperazione nella regione. 

Marcella Esposito

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