Poco meno di otto anni e 335 milioni di gigatonnellate di CO2 rimanenti affinché l’aumento della temperatura globale non superi gli 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Il countdown è iniziato, e con esso la gravosa sfida dell’uomo alla crisi climatica. È ormai chiaro che una tutela ambientale efficace contro l’annichilimento della società odierna non può prescindere dalla lotta a una delle principali cause di tale crisi, il sistema economico capitalista. Paradossalmente, per salvare la società contemporanea abbiamo bisogno di distruggere quella stessa società, e così la sfida dell’essere umano alla crisi climatica si trasforma in una sfida dell’uomo all’uomo stesso: quel che viene definita crisi antropogenica si tramuta così in crisi capitalogenica. Non ci sono più dubbi, il capitalismo di certo rappresenta l’arma del delitto con cui l’uomo sta massacrando il suo stesso ecosistema, ed è il motivo per cui invochiamo con immediatezza un’internazionale ecosocialista. Un’architettura economica basata sull’accumulazione di capitale, che mette il profitto al centro d’ogni cosa, che divide la società in classi sfruttandone le più deboli a favore di un’alta borghesia mai sazia non è più compatibile con i limiti della biosfera terrestre. Il sogno di una crescita infinita è destinato a diventare un incubo per l’intera razza umana, così come la menzognera utopia di quello che viene definito “capitalismo verde“. È importante però che tale incŭbus capitalista, essere demoniaco che opprime le persone, non diventi ulteriore motivo di disillusione popolare. Citando Proust, «Se sognare un po’ è pericoloso, il rimedio non è sognare di meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo». Si rende quindi necessaria una diversa visione di futuro, nel quale un nuovo modello di economia dipenda dallo stato di salute della biosfera e, allo stesso tempo, renda efficace la tutela dell’ambiente.
Negli ultimi trent’anni, grazie al contributo di economisti e sociologi del calibro di James O’Connor, Joel Kolev e Michael Lowy, si è sviluppata l’idea secondo la quale l’abuso delle risorse naturali e dei territori in cui viviamo e lo sfruttamento del lavoro non siano altro che facce della stessa medaglia. Per questo motivo è fondamentale cominciare ad applicare alla battaglia ambientalista gli strumenti d’analisi socialista sviluppati dal filosofo-economista per eccellenza, Karl Marx. E già negli anni ’80 prese vita una nuova corrente ideologica, conosciuta ai più col nome di socialismo ecologico o ecosocialismo. Per lo stesso O’Connor l’applicazione del marxismo ecologico era in grado di strutturare una società ecosostenibile, fondata sul controllo democratico, l’uguaglianza sociale e quindi sul superamento dell’attuale, agonizzante, sistema di produzione e consumo. Non a caso molti degli obiettivi ecosocialisti si ritrovano nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, il programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Secondo l’ONU, per raggiungere il suddetto sviluppo sostenibile è fondamentale armonizzare tre elementi: la crescita economica, l’inclusione sociale e la tutela dell’ambiente. Non può esistere perciò lotta ambientalista che non tenga conto della lotta a favore di una società egualitaria, come non può esserci una società fondata sull’uguaglianza che non tenga in considerazione la tutela dell’ambiente. In definitiva non c’è socialismo senza ambientalismo e non c’è ambientalismo senza socialismo.
Immagine: unric.org
Ma in nome di una teoria basata sull’accumulazione, sul tornaconto e sugli utili, l’uomo ha barattato la salute con il profitto e svenduto aria, acqua e terra. Da tempo la natura grida il bisogno di una nuova teoria etica, la stessa professata anni fa da Hans Jonas, il principio di responsabilità. La politica è però rimasta sorda e la società cieca. Ma oggi qualcosa si muove. Ci sono adolescenti che scioperano e sfilano per le strade, ci sono giovani e meno giovani chi si incatenano per le vie. Qualcuno occupa i principali centri delle grandi città. Ci sono movimenti come Fridays for Future e Extinction Rebellion. In Norvegia, in Gran Bretagna, in Italia, negli USA, nel mondo intero: cittadini di ieri, figli di domani. Movimenti di rivolta pacifica che hanno un unico scopo: contrastare le scelte – compiute dalla politica, ma anche dalla società – che hanno devastato e continuano a devastare il mondo. In tempi come i nostri, in cui le idee appaiono spesso in-utili e im-praticabili, il segnale lanciato da Greta Thunberg, il recente rifiuto al silenzio dei millennial, il richiamo al senso del dovere e l’eco che tutto questo ha avuto nel mondo, rivela che le stesse idee ancora contano e che i cittadini possono diventare fiumi di voci dissidenti contro un sistema che intossica e a favore di una politica socialmente ed economicamente sostenibile. Le critiche mosse verso i promotori della ribellione ecologica non possono intaccarne il valore. Un primo passo è stato fatto: la collettività ha partecipato alle manifestazioni e non è mancata agli appuntamenti. E chi non lo ha fatto ha comunque visto le immagini di un fiume in piena e preso così coscienza dell’esistenza di un problema, anche se lentamente e gradualmente; non tutti e non ovunque. La strada è lunga, e tuttavia il progresso dei partiti Verdi alle ultime elezioni europee è un ulteriore sentore del cambiamento ideologico. Non basta però sfilare: bisogna indagare i problemi nel profondo, chiedere e agire. I legittimati al potere sono il riflesso della volontà del singolo che poi diventa insieme. La società ha risposto alla chiamata emergenza clima, ma è determinante un’azione politica congiunta e concomitante per produrre risultati. Urge contrastare il potere oligarchico che si nutre di una visione tecnocratica.
Fonte immagine: dw.com
Urge superare le dicotomie ideologiche appartenenti alla stessa sinistra che hanno considerato in passato l’ecologia cosa altra rispetto al socialismo, estranea al pensiero di Marx ed Engels e “troppo borghese” per essere sinistra. Ci hanno fatto credere che fosse necessario guadagnare a qualsiasi prezzo e che i danni ecologici potevano essere accettati in nome di un lavoro sicuro. Ci hanno ricattati con leggi economiche discriminanti e discriminatorie. La strada da percorrere è lunga, e necessita di essere alimentata con la cultura del rispetto, il contrasto al dualismo oppressore/sfruttato e il riconoscimento dei beni utili da quelli accessori. Ecco perché l’esigenza di un’internazionale ecosocialista. La politica ha tardato e poi fallito nell’affrontare la crisi climatica: bisogna invertire la rotta e movimenti come FFF e XR hanno di certo smosso le acque. Nonostante gli accordi internazionali, gli impegni dei governi mondiali continuano a disilludere aspettative e promesse. Non basta inserire la parola ambientalismo nelle agende politiche, né si può utilizzare la parola ecologia in senso propagandistico: servono azioni concrete, immediate e universali. L’immobilismo del Senato USA e il negazionismo del climate change da parte di Trump non sono segnali positivi. I tentativi irrisori di riduzione di inquinamento in Cina non sono segnali positivi. L’elevato numero di morti per smog in Italia non è un segnale positivo. Il pericolo più grande sarebbe assistere all’accettazione di programmi sostenibili solo per nomenclatura, ma svuotati di contenuto, giacché gli interessi economici legati all’uso di combustibili fossili sono ancora troppo alti. Occorrono investimenti pubblici per la conversione economica, il riconoscimento dei reati ambientali, una salvaguardia urbanistica. Non devono spaventare le fasi di transizione: un progetto di riconversione economica di lunga durata è l’unica risposta alla crisi ambientale, che è crisi economica, sociale, culturale e politica.
L’offensiva ideologica al movimento ambientalista arriva dunque anche da sinistra. L’assioma “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” (ripreso da Chico Mendes) sintetizza senz’altro la posizione della sinistra radicale più ortodossa, quantomeno sospettosa rispetto a movimenti come FFF e alla figura di Greta Thunberg, in quanto non apertamente e radicalmente anti-capitalisti, riducibili al fenomeno puramente mediatico, manchevoli di approfondimento e chiarezza ideologica, e comunque ascrivibili all’interno del sistema dell’individualismo consumeristico. Ma se il sottinteso anti-capitalista dell’ambientalismo è stato già debitamente sottolineato, si può rispondere alle critiche individualiste con una digressione apparentemente acrobatica: Edward Lorenz, matematico e meteorologo, pubblica nel 1972 “Predictability: Does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?“, in cui conia la fortunata locuzione conosciuta come “effetto farfalla”: il battito delle ali d’una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas. Nel contesto del linguaggio scientifico l’espressione comporta che “infinitesime variazioni nelle condizioni iniziali producono variazioni grandi e crescenti nel comportamento successivo dei sistemi lineari”. Tradotta in termini più letterali ed esemplificativi, essa è rappresentativa del fatto che un qualsivoglia piccolo cambiamento nelle condizioni iniziali del sistema conduce a conseguenze su scale ben più grandi.
L’applicazione dell’effetto farfalla al dibattito in corso sul movimento ambientalista non è immediato, ma può essere illuminante: come confermano studi sociologici della post-contemporaneità (tra i più eminenti Bauman, Simmel, Castells), le società liquide, consumistiche e informatizzate descrivono intricati network dove gli stimoli mediali e di consumo costituiscono l’aggregazione sociale. Questa struttura da una parte comprime l’azione collettiva classicamente intesa, ma dall’altra amplia potenzialmente lo spazio d’azione degli individui, che può contribuire a innescare reazioni più vaste e sistemiche attraverso i nuovi dispositivi di comunicazione. Bisogna partire da queste considerazioni per costruire le basi di un nuovo rapporto con la società nella quale ci si trova ad operare, ispirato ad una “lotta di classe” declinata secondo parametri contemporanei, per sgretolare con efficacia e metodo il sistema capitalistico. La forza mediatica di Greta e delle proteste, ma anche la diffusione di comportamenti ecosostenibili, possono fungere da grimaldello di straordinaria efficacia per preparare e coinvolgere masse più ampie nel progetto politico dell’ecosocialismo. Non si può e non si devono contrapporre scelte individuali a scelte collettive, ma coniugarle: ogni voce, ogni pensiero, ogni azione, può essere fondamentale nella lotta multilaterale alla crisi capitalogenica.
Immagine: technologyreview.com
L’ecosocialismo è dunque una radicale alternativa al capitalismo, risultante dalla convergenza tra pensiero ecologico e riflessione socialista. Il suo presupposto fondamentale è che la conservazione di un ambiente naturale favorevole per la biodiversità del pianeta non è compatibile con la logica espansiva e distruttiva del capitalismo. Non si possono preservare gli equilibri ecologici vitali del pianeta senza contestare il sistema socioeconomico, non è possibile separare la lotta per la tutela della natura dalla lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società. L’ecosocialismo propone una riorganizzazione dell’intero modello di produzione e di consumo in base a criteri al di fuori del mercato capitalistico: le reali esigenze della popolazione e la protezione di equilibrio ecologico. Ovvero un’economia di transizione al socialismo, in cui la popolazione stessa – e non le leggi del mercato o di uno Stato autoritario – decida, in un processo di pianificazione democratica, le priorità e gli investimenti. Una rapida transizione verso un’economia carbon free basata esclusivamente sulle energie rinnovabili, ovviamente finanziata – tramite risarcimenti e royalties – dalle major del carbonio responsabili della crisi ecologica. Per avere una possibilità su due di rimanere sotto gli 1,5°C di riscaldamento senza ricorrere a tecnologie forsennate (e non ancora disponibili), bisogna che le emissioni nette di CO2 diminuiscano del 58% da qui al 2030, del 100% da qui al 2050, e siano negative oltre quella data. A tal fine occorre svolgere un vasto rimaneggiamento industriale e infrastrutturale, con annesse socializzazioni dei settori energetici e del credito, la riduzione massiccia del tempo di lavoro senza perdita di salario, la riconversione del personale in attività utili con garanzia di reddito, e lo sviluppo di servizi pubblici democratici. Con ciò è necessaria la creazione di un nuovo modello di consumo e di un nuovo modo di vivere, in base alla soddisfazione dei bisogni sociali reali, che è qualcosa di completamente diverso dai presunti falsi bisogni artificialmente prodotti dalla propaganda capitalista.
Ne consegue l’eco-pensiero della rivoluzione socialista come una rivoluzione della vita quotidiana, come una rivoluzione per l’abolizione della cultura del denaro e dei beni imposti dal capitalismo. La moderna civiltà capitalista industriale si muove con rapidità crescente verso un eco-suicidio. Questo processo drammatico tenderà nei prossimi decenni a una catastrofe ecologica incalcolabile: aumento della temperatura, desertificazione, scomparsa di acqua potabile e della maggior parte delle specie viventi, feroci conflitti etnici, moltiplicazione di uragani e innalzamento degli oceani. In molti credono che la distopia sia la ovvia e scontata conclusione. Sembra irrealistica l’idea che le società possano decidere collettivamente e applicare mutamenti fondativi riguardanti trasporti, alloggi, energia, agricoltura, sanità, spazi ricreativi e tanto altro, ma l’alternativa è possibile e frenare il disastro è un compito immediato. Attualmente ogni oleodotto che viene tappato, ogni centrale a carbone che chiude, ogni foresta che viene protetta contro la voracità distruttiva del capitale rallenta il disastro. Ma per prevenire del tutto il collasso della civiltà umana si può solo distruggere il sistema attraverso una rivoluzione socio-ecologica che ponga in rilievo l’interconnessione di ogni forma vitale. Al momento la crisi climatica è un’emergenza che può innescare tutte le nostre energie al fine di evitare catastrofi incontrollabili e cogliere l’opportunità storica di modificare collettivamente le nostre vite. Urge organizzarsi in una coalizione anti-sistema con sindacalisti, ambientalisti, movimenti indigeni, contadini, movimenti delle donne, associazioni laiche e religiose, correnti rivoluzionarie, movimenti giovanili, gruppi di quartiere, militanti socialisti, comunisti e anarchici per rafforzare la possibilità di formare una società equa. A una crisi collettiva c’è bisogno di una dirompente risposta collettiva. La sesta estinzione di massa è già iniziata, ma non è ancora troppo tardi: possiamo ancora costruire una civiltà prospera, solidale ed ecosostenibile nel lungo termine. La lotta è per il futuro della vita di tutti noi.
Fonte: terraup.it
Se è vero che il diritto all’aria pubblica rappresenta la perdita dell’aria pubblica come bene naturale – seguendo il cammino segnato da Baudrillard – allora la giustizia sociale non va richiesta, bensì pretesa. Il Green New Deal è, in tal senso, la ricognizione di una tale rivendicazione nel campo di un più ampio confronto sociale, che tiene in considerazione la dimensione dell’impatto reale delle impalcature economiche sull’ambiente come causa dei grandi fenomeni che interessano il mondo e coloro che lo abitano, e la necessità di imboccare un sentiero tutt’altro che semplice nelle società individualizzate a capitalismo avanzato. Giustizia climatica vuol dire diritto all’abitare per tutti e, a sua volta, confronto sociale sul tema della povertà e della precarietà; vuol dire fornire gli strumenti per vivere dignitosamente a coloro che non dispongono delle risorse per vedersi garantito questo diritto. Il global warming è matrice di una discriminazione, che, essendo un prodotto del capitalismo, come effetto dello sfruttamento inappropriato della natura, genera sfiducia e malessere diffusi, incapaci di assurgere alla sfida globale verso uno sviluppo sostenibile per concretizzare le suggestioni dell’Agenda 2030. Tale discriminazione è rivolta a coloro che vivono in condizioni di svantaggio dinanzi al modello stabilito di produzione delle differenze, i reietti dell’adattamento e, quindi, i migranti, i neri, i disabili, i poveri e i diseredati, le donne, le popolazioni indigene, e così via. L’economia fondamentale considera un ritorno alla garanzia di beni e servizi universali di base, nel riconoscimento della priorità che ha la politica sull’economia, continuamente messa in discussione dalle privatizzazioni e dalle esternalizzazioni dettate dalla crescita. Su tutti i livelli è facilmente constatabile che, senza un’istruzione gratuita, senza una riduzione delle disuguaglianze economiche, senza un impegno collettivo e istituzionale non è possibile un appianamento delle disparità presenti nell’ambiente sociale. Ecosocialismo vuol dire prendere atto del fatto che tutte le proposte e le misure, nel puntare a una incisività sostanziale nei confronti di ciascuno, con riguardo alla società odierna nel suo complesso, dovranno tenere in considerazione la dimensione e le conseguenze internazionali di medio e di lungo periodo.
Come già raccontava Naomi Klein nel 1999, esiste un filo rosso che unisce il radere al suolo le foreste con la brama di profitto, perché il rispetto per l’ambiente passa per la critica alla maniera in cui si è sempre consumata la natura, che non è nient’altro se non lo sfruttamento delle risorse fino alla sua distruzione. Superare il sistema capitalistico deve tradursi nella costruzione di un’alternativa socialista che liberi gli esseri umani dall’affanno dei mezzi di produzione, dalla tradizione patriarcale e dalle catene dei propri confini. Non è la legge di Murphy, è la propagazione di una trasformazione locale in un evento globale: il corso d’acqua che attraversa la piccola città riceve dai suoi affluenti gli scarichi tossici della produzione industriale, andando a ingrossare gli argini, a irrigare i campi, a dare da bere agli assetati, a immettersi in mare prima di evaporare, per poi tornare sul suolo sotto forma di pioggia acida. Per questa ragione, le strutture vanno convertite al green attraverso azioni a basso e/o alto contenuto tecnologico, dal piantare alberi alla conversione delle emissioni a difesa dell’ecosistema, passando per la conversione ecologica del fisco, nel più ampio scenario di un’unione contro il consumismo a partire dai singoli e dalle comunità, una mobilitazione che incontri trasversalmente le istanze di tutti e di ognuno.
Per renderci realmente conto delle reali proporzioni di questa urgenza, basti pensare che già nell’aprile 2009 l’ambasciatrice boliviana presso la World Trade Organization, Angélica Navarro Llanos, relazionando al convegno ONU sul clima parlò dell’esigenza di “un Piano Marshall per la Terra” e di una mobilitazione senza precedenti entro un decennio. Siamo nel 2020, quel decennio è appena trascorso e del Piano Marshall per la Terra non si intravedono che pallidi palliativi, mentre la mobilitazione è appena all’inizio. In questo senso il velo di Maya squarciato da Greta Thunberg non è altro che ciò che la comunità scientifica, gli attivisti e i giornalisti vanno ripetendo da anni nella quasi totale indifferenza. La stessa Naomi Klein ha dedicato il suo corpus letterario a sviscerare gli aspetti della crisi climatica e le insanabili contraddizioni del capitalismo (This changes everything. Capitalism vs. The climate, 2014), gettando al tempo stesso le basi fondative ideologiche e politiche di un’internazionale ecosocialista in grado di coniugare gli aspetti rivoluzionari della giustizia climatica e della trasformazione socialista con l’appianamento delle distorsioni causate dal neocolonialismo occidentale, dal capitalismo razziale, dall’estrattivismo sfrenato e dalle logiche patriarcali.
Fonte: iltascabile.com
Ma prima ancora che la proposta, a mancare è stata la protesta: la presa di coscienza fondamentale che la crisi climatica è la questione prima ed essenziale della politica odierna e, con ogni probabilità, dell’intera storia dell’umanità. E la sinistra, nella supina accettazione della retorica populista, sovranista e neoliberista come narrazione dominante, non è stata meno colpevole dei negazionisti. Ma l’occasione che ci si presenta davanti è unica e irripetibile, e non necessita di bias di biasimo ma di azioni proattive, della costruzione di una nuova narrazione dominante che sappia scardinare l’isolazionismo autarchico dei nuovi totalitarismi in favore di una visione olistica e inclusiva del mondo. Un mondo casa comune, un mondo bene collettivo sfasciato da una manciata di oligarchi in virtù di un’illusoria, suicida ossessione del profitto. Le derive securitarie e regressive che hanno palesato la fallacità della democrazia rappresentativa necessitano di una risposta altrettanto forte, e questo non avverrà attraverso scissioni ed esclusioni. Perché mentre la California bruciava, Donald Trump bollava il riscaldamento globale come una frottola; mentre la Siberia bruciava, Vladimir Putin esprimeva le sue perplessità sulla natura dei cambiamenti climatici; mentre l’Amazzonia bruciava, Jair Bolsonaro accusava le associazioni ambientaliste; mentre l’Australia bruciava, Scott Morrison rifiutava ogni collegamento tra gli incendi e la crisi climatica. Non è più ammissibile né tollerabile lasciare le sorti del pianeta nelle mani della classe politica più vigliacca, ignorante, incapace e criminale di sempre. Il futuro dell’umanità sarà libero da questi figuri, o non sarà affatto. Le responsabilità ricadono sulla testa di ognuno, ma non possiamo aspettarci che siano le destre fasciste a risolvere il problema: è necessaria quindi, anzi imprescindibile, un’internazionale ecosocialista che attraversi i cinque continenti a sistematizzare il movimento globale per la giustizia climatica, raccogliendo i frutti delle esperienze sperimentate finora. E se il Green New Deal può rappresentare la piattaforma comune intorno a cui creare aggregazione, è altresì necessario saperlo declinare a seconda delle esigenze delle comunità locali: sarebbe del resto paradossale pretendere di applicare le stesse logiche d’intervento nel deserto messicano, nelle paludi indiane, nelle foreste europee e nelle metropoli cinesi. “Think global, act local” non è mai stato un motto così opportuno, ma anche il tempo degli slogan è finito: così come la propaganda e le fake news sono il fertilizzante ideologico del capitalismo totalitario, a corroborare la proposta ecosocialista dovranno essere una stringente unità d’intenti, una coerenza intersezionale di fondo e soprattutto l’azione diretta. Perché se il singolo individuo può fare la differenza, i popoli mossi da un obiettivo comune possono fare la storia.
con il contributo di Antonio Acernese, Alba Dalù, Rebecca Graziosi, Luigi Iannone, Marco Pisano, Gianmario Sabini, Sara Santoriello, Emanuele Tanzilli
Non solo da Marx ma anche dalla tradizione classica (Ar.,Epicuro) e cristiana (T,d’Aquino) la monetizzazione è stata segnata come motore degli scambi e delle involuzioni d’accumulo.
L’ecosocialismo tende a far convergere bisogni individuali e sociali con le condizioni ambientali mediante il processo democratico decisionale circa i beni da produrre e distribuire moderando interessi bancari e spinte consumiste in un’epoca nella quale velocità informatica e pubblicità subliminale tolgono alla coscienza tempi e modi di autocritica così da permettere la nascita del comune senso della moderazione.
Perchè ad es. i proprietari di auto personali avvertano l’equità di tassarsi per finanziare il trasporto pubblico, le multinazionali del petrolio l’immoralità di confidare nei mercati,i delegati del popolo di tener fede al mandato senza mercificarsi per carriera…tutto ciò esige il superamento del piacere del possesso a favore della sua liberazione senonché anche il tempo libero auspicato da Marx è stato risucchiato nel consumismo…e allora resta la sola rassegnazione? Ovvio che no ma l’autoeducazione dell’individuo e dei popoli è più lenta dei processi reali avviati…finchè nuove generazioni sapranno vivere senza quello che a tuttoggi è ritenuto irrinunciabile: carriera , stipendio buoni partiti e good bye a tutto il resto.