Golden State

Gara-5 delle Finals è stata un film: intensa, immensa, “sanguinosa”. Golden State perde Durant ma si regala altri 48 minuti di speranza.

È difficile trovare aggettivi per la gara-5 delle NBA Finals 2019, motivo per cui abbiamo dovuto ricorrere alla citazione di uno dei più grandi giornalisti sportivi della storia italiana, Nando Martellini e le sue parole scolpite nella memoria di ognuno di noi – anche di coloro che non erano ancora nati quel 17 giugno 1970 – al termine della Partita del Secolo, Italia 4-3 Germania. È difficile perché è avvenuta una così innumerevole quantità di cose, che probabilmente bisognerebbe coniare delle nuove parole per descriverla. Ma nella totale incapacità di trovare delle similitudini con altre partite così importanti del passato, i singoli avvenimenti, che sommati hanno prodotto questa sceneggiatura hitchockiana, ci riportano alla mente delle situazioni già viste. Gara-5, Durant sente qualcosa che non va nella sua gamba destra, si tocca il tendine: déja vu. Klay Thompson mette la tripla giusta quando è necessario, quando è vitale: déjà vu. Avanti 3-1 nella serie, tutto è pronto per celebrare un enorme successo, ma così non è, se ne parla (forse) in gara-6: déjà vu. Raccontandoli uno per uno, non solo snoccioliamo i momenti più importanti della partita, ma veniamo investiti da quella sensazione di aver già vissuto situazioni simili.

Golden State

Partiamo da dov’è necessario partire, perché, nonostante la vittoria che tiene ancora in vita le speranze degli Warriors, vi è un solo argomento di cui non si fa altro che parlare nelle ultime ventiquattro ore: l’infortunio di Durant. L’avevamo lasciato in gara-5 contro Houston, quando, per cercare di battere nuovamente il difensore, prova l’ennesimo tiro in jump e inizia a toccarsi nella parte inferiore della gamba destra. Il movimento è sinistro, non promette nulla di buono, si teme qualcosa che abbiamo già visto con Kobe Bryant e DeMarcus Cousins, per citare i due casi recenti più importanti, ovverosia un problema al tendine d’Achille.

La risposta della risonanza magnetica è più confortante, ma resta l’incognita del suo rientro, di cui non viene mai stabilita una data certa. Contro Portland non se n’è parlato minimamente, sarebbe stato anche innecessario considerando l’andamento della serie. Bisognava soltanto capire in che punto della serie contro Toronto il n.35 avrebbe rimesso piede in campo, ammesso che fosse possibile. Sì, perché sin dal giorno in cui Durant ha subito l’infortunio, quasi nessuno pensava che fosse qualcosa di ‘leggero’, ma qualcosa ben più grave di quanto in realtà la dirigenza di Golden State abbia voluto comunicare alla stampa.

Durant viaggia con i compagni in Canada per le prime due partite, che viene percepito come un buon segno su di un suo possibile rientro. Che non avviene. E non avviene neanche nelle due gare successive ad Oakland, quelle che hanno affossato i due-volte campioni. Si inizia così a dubitare della sua reale condizione atletica, finché Steve Kerr non annuncia che sarebbe rientrato in gara-5 o -6. Che non sarebbe esattamente la stessa cosa, perché potrebbe non esserci mai. Poche ore prima della partita di lunedì viene annunciata la sua presenza nella line-up di Golden State: il numero 35 è ufficialmente tornato.

Iniziano a tirare un sospiro di sollievo i fan della franchigia californiana, iniziano a preoccuparsi quelli della canadese. L’inizio dà alito a queste inquietudini. Durant sembra essere in ottime condizioni, gioca – e soprattutto segna – come se non si fosse mai fermato, come se il tempo si fosse fermato ad un’altra gara-5, quella stramaledetta di Houston: Segna 11 punti in altrettanti minuti, non sbaglia neanche una tripla (3 su 3) e addirittura si regala una stoppata su Siakam. Arriva poi il momento più noto alle cronache, quello in cui il suo tendine – si attende l’ufficialità degli esami strumentali – decide che bisogna fermarsi, eufemisticamente parlando. E per quanto possa sembrare inadeguato utilizzare il termine drammatico per una partita di pallacanestro, le emozioni che sono arrivate attraverso lo schermo sono esattamente quelle. Durant esce dal parquet reggendosi a Rick Celebrini e Andre Iguodala, non riesce a camminare. Lo accompagnano negli spogliatoi, in silenzio, ma il suo sguardo comunica tutto. Con loro c’è anche Stephen Curry. La situazione è così assurda che nei minuti successivi all’episodio che i tifosi della Scotiabank Arena – dopo aver vergognosamente esultato al momento dell’infortunio – restano quieti per qualche minuto. 

Una partita irreale, una situazione irreale che prosegue anche nel post-partita. Bob Myers, l’uomo a capo delle operazioni sportive di Golden State, trattiene a stento le lacrime in sala stampa: “Kevin ha subito un infortunio al tendine d’Achille. […] Io non penso ci sia nessuno da incolpare [per l’infortunio], ma so come funzionano le cose a questo mondo, quindi se dovete incolpare qualcuno, incolpate me”

Golden State

La storia delle squadre di successo della NBA è piena di momenti in cui alle cosiddette ‘superstar’ viene in soccorso l’aiutante, accade anche in molte storie d’avventura. Il protagonista magari sferra il colpo decisivo, ma senza l’aiuto di qualcun altro non si sarebbero potute creare le condizioni perché ciò avvenisse. Possiamo ricordare Robert Horry con i Lakers e gli Spurs, Steve Kerr con i Bulls, Ray Allen con gli Heat. Non gli uomini copertina, ma gente a cui affidarsi quando bisogna farsi avanti, quando è importante che qualcuno si prenda la responsabilità di un tiro pesante. Klay Thompson is that man. Per quanto sia eccezionale, per quanto sia uno dei tiratori più incredibili che si siano mai visti, le luci della ribalta sono sempre per Stephen Curry e Kevin Durant. Ma a lui sta bene, non gli interessa. L’unica cosa per cui lavora, per cui prende quei tiri è per vincere il titolo. L’atteggiamento di Klay (ma anche di Curry) rappresenta il motivo per cui Golden State è diventata una dinastia, che può andare avanti per chissà quanto a lungo, al di là di come finiranno queste Finals: non esistono atteggiamenti egoistici. Se ne parla spesso, ne abbiamo parlato molte volte, ma è un concetto che è fondamentale, è alla base di questi anni di successi ed è tanto importante quanto l’abilità nel segnare triple di vitale importanza.

Thompson è un clutch player. Lo abbiamo visto con la tripla del vantaggio a 1’36” allo scadere di gara-6 a Oklahoma nel 2016 (all’interno di una prestazione leggendaria), lo abbiamo visto sempre in gara-6 quest’anno contro Houston a 36” dal termine e naturalmente lo abbiamo visto lunedì. L’inerzia della partita sembrava ormai dalla parte di Toronto, quasi impensabile una rimonta di Golden State e, invece, sono arrivati 9 punti che hanno spento chiunque pensava che la serie fosse ormai finita. La straordinarietà di questi canestri, oltre alla loro bellezza in sé, deriva dalla capacità degli Warriors di riuscire a restare lucidi anche nel momento di maggiore difficoltà. Con il loro normale savoir-faire-cestistico hanno creato gli spazi necessari per tre tiri importanti, al resto ci hanno pensato Klay Thompson e Stephen Curry. 

Golden State

Che la partita fosse finita lo pensavamo tutti, tranne Golden State. E non è un’esagerazione. Bill Russell era nel corridoio. Il trofeo era stato lucidato. Il palco era pronto per essere montato. I cameramen avevano messo la plastica sopra le telecamere. Lo champagne era in ghiaccio.Spesso in questi giorni si è parlato di come i Raptors avessero distrutto gli Warriors, di come fossero riusciti a sovrastarli fisicamente e difensivamente, di come offensivamente nessuno era stato in grado di fermare, a turnazione, Siakam, Leonard, VanVleet.

Nonostante l’infortunio di Durant, gli ospiti avevano sempre tenuto in mano la partita, toccando addirittura un +11 nel terzo periodo. Questo vantaggio si è assottigliato, sempre di più, finché allo scoccare degli ultimi cinque minuti dell’ultimo periodo Leonard non ha spezzato la gara in due. Dieci punti in due minuti, quattro canestri consecutivi. Una sequenza di giocate, tiri impressionanti che se avessero portato alla vittoria del titolo ne parleremmo fino alla fine dei giorni. E invece, come tutti sappiamo, non è andata così, non andrà così. Golden State è riuscita a tornare in partita, grazie anche all’aiuto dei Raptors che negli ultimi tre minuti hanno messo a segno un solo canestro (su sei tentativi), non approfittando dei regali che Cousins ha lasciato per strada. E alla fine, allo scadere, Lowry ha avuto anche il tiro della vittoria, ma le dita di Green si sono frapposte fra lui e il Larry O’Brien Trophy. Per ora.

Immagine in evidenza: goldenstateofmind.com

Michele Di Mauro

Quotidiano indipendente online di ispirazione ambientalista, femminista, non-violenta, antirazzista e antifascista.

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