Il 31 ottobre 2021 avrà inizio la COP26, la Conferenza ONU sul cambiamento climatico che si terrà a Glasgow con la co-partnership del Regno Unito e dell’Italia, con un anno in ritardo a causa della pandemia. L’evento terminerà il 12 novembre e vedrà sedersi al tavolo delle negoziazioni più di 190 leader globali per discutere di cambiamento climatico. La celebre COP21 di Parigi ha segnato un momento storico: per la prima volta quasi tutti i paesi del mondo si sono impegnati legalmente a ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Dopo sei anni dall’Accordo di Parigi gli sforzi volti a limitare il surriscaldamento globale non oltre i 1,5 gradi Celsius sui livelli pre-industriali non sono sufficienti. I prossimi dieci anni saranno cruciali per le sorti del pianeta.
Gli obiettivi della COP26 per i prossimi decenni
Dopo quasi due anni dallo scoppio della pandemia da COVID-19, le sfide globali si fanno ora più intense: la lotta contro il cambiamento climatico, contro la povertà e la distruzione ambientale deve coincidere con il rilancio economico post-pandemia. Sembra un paradosso in un mondo in cui la crescita economica va di pari passo con la produzione di CO2, con lo sfruttamento delle risorse naturali e il degrado ambientale. Eppure il motto della COP26 sarà proprio “build back better” -dal nome del pacchetto di aiuti voluto dal presidente statunitense Joe Biden per dare sollievo al Paese dopo la pandemia- con l’obiettivo di sostenere una crescita economica più verde e sostenibile. Ai tavoli delle negoziazioni a Glasgow sarà forse possibile sapere come un obiettivo così ambizioso possa essere raggiunto.
I paesi del mondo che parteciperanno alla COP26 sono chiamati entro il 2030 a ridurre le emissioni di gas a effetto serra per raggiungere il “global net zero”, l’azzeramento delle emissioni, entro il 2050 mantenendo nel frattempo l’innalzamento della temperatura entro l’1,5 gradi Celsius. Ogni paese può decidere singolarmente come raggiungere questi obiettivi attraverso il cosiddetto NDC (Nationally Determined Contribution), un piano nazionale da aggiornare ogni 5 anni in cui sono contenuti i target più ambiziosi per la riduzione delle emissioni. Il 2021 è l’anno in cui i piani nazionali devono essere aggiornati.
Nei prossimi decenni la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra dovrà essere raggiunta attraverso quattro “semplici” mosse:
- Eliminare gradualmente il carbone come fonte energetica
- Limitare la deforestazione
- Accelerare il passaggio ai veicoli elettrici
- Incoraggiare gli investimenti nelle fonti rinnovabili
Più taciute sono invece le conseguenze di un innalzamento della temperatura globale: anche sotto i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali gli effetti del cambiamento climatico potrebbero essere devastanti. Per questo motivo, la COP26 di Glasgow si focalizzerà sulle azioni che possono essere compiute per adattarsi al climate change. Oltre a proteggere e ripristinare gli ecosistemi, i Paesi dovranno investire nella costruzione di infrastrutture resilienti, sistemi di allarme e di difesa per evitare il danneggiamento e la perdita di abitazioni, mezzi di sussistenza e persino vite.
Il ruolo degli investimenti da parte della finanza pubblica e privata è difatti centrale per il raggiungimento del global net zero, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. A questo proposito, i paesi industrializzati avevano promesso di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari nella finanza climatica entro il 2020 a favore dei Paesi del Sud Globale, più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. Ovviamente questo obiettivo non è stato raggiunto.
La COP26 sarà dunque il vertice in cui dovrà essere finalizzato il Paris Rulebook, il regolamento che renderà operativo l’Accordo di Parigi, e in cui l’azione congiunta contro il cambiamento climatico dovrà incontrare la collaborazione di tutti: governi, società civile e imprese.
Il rientro degli Stati Uniti e il fallimento del G20 a Napoli
La novità della COP26 sarà il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi. Poche ore dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, Joe Biden ha deciso a inizio del 2021 di impegnare nuovamente il Paese nella lotta al cambiamento climatico, diversamente da quanto attuato dal precedente presidente Donald Trump. D’altronde il Paese a stelle e strisce è solo il secondo più grande produttore di gas a effetto serra e quest’estate ha vissuto eventi meteorologici estremi, tra enormi incendi causati da temperature da record e pericolosi uragani.
L’era di Trump pare essere arrivata al capolinea, perlomeno per quanto riguarda l’impegno degli Stati Uniti sul fronte ambientale. Biden ha difatti definito il cambiamento climatico “la più grande minaccia” alla nazione. Nonostante questo sperato ritorno nella compagine internazionale, i paesi del G20 sono lungi dall’essere disposti a uno sforzo comune contro il global warming.
Il summit del G20 tenutosi a Napoli quest’estate con i ministri dell’ambiente si sarebbe dovuto concludere con due successi, secondo il ministro dell’ambiente italiano Cingolani: tutti i paesi avrebbero dovuto riconoscere la necessità di discutere ulteriormente l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi il surriscaldamento globale e di supportare i paesi emergenti in vista della COP26 di questo autunno.
Gli obiettivi più ambiziosi di alcuni Paesi del G20 non hanno coinciso con le resistenze di Paesi come la Russia, l’Australia e l’Arabia Saudita nello stabilire target per la riduzione delle emissioni. Ciò che di fatto ha impedito il rafforzamento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi prima del summit in Scozia è stato il rifiuto di Cina e India a impegnarsi collettivamente per due obiettivi principali: mantenere il limite di 1,5 gradi e tagliare gradualmente il carbone entro il 2025. Ancor più grave, non è stato trovato un accordo sul finanziamento dei paesi in via di sviluppo per sostenere la lotta contro il cambiamento climatico e la transizione verde delle economie. Le speranze (poco rosee) di trovare un accordo si riversano ora sui capi di Stato del G20 che si incontreranno a ottobre a Roma.
Trovare una soluzione all’unanimità di tutti i Paesi appare molto difficile. Nel frattempo il pianeta è letteralmente in balia del cambiamento climatico. Le persone più vulnerabili sono quelle che traggono il proprio sostentamento dagli habitat naturali, che vivono con gli alimenti che coltivano, allevano o pescano in zone del mondo in cui si investe poco o niente in infrastrutture per l’approvvigionamento idrico. Eppure la voce grossa è quella dei grandi produttori di emissioni che decidono alle spalle di coloro che meno hanno contribuito al cambiamento climatico, ma che ne vivono gli effetti più disastrosi. La COP26 potrebbe essere l’occasione per mettere le persone che vivono in contesti rurali al centro della discussione sul cambiamento climatico e per far convergere la discussione sulle profonde interconnessioni che uniscono crisi climatica, povertà e sicurezza alimentare.
Rebecca Graziosi