“Qui rido io” è l’iscrizione che il commediografo Eduardo Scarpetta fece scolpire sulla facciata della sua villa al Vomero costruita alla fine dell’800: un monumento a sé stesso in stile liberty, quasi un castello in miniatura pieno di dipinti e fotografie in pose di ogni tipo del suo monarca, frutto dei faraonici incassi della commedia “Na santarella” (di cui la villa prese il nome). E “Qui rido io” è anche il titolo dell’ultimo, bellissimo affresco storico di Mario Martone che, prendendo spunto dallo sberleffo quasi vendicativo fatto incidere sul granito dal suo proprietario, restituisce il ritratto di una Napoli in piena belle époque e di un personaggio di capitale importanza per la storia del teatro dialettale e non: l’Eduardo capocomico e capoclan di una dinastia, gli Scarpetta-De Filippo, che ancora oggi continua a calcare i palcoscenici, ma anche l’uomo dalle diecimila contraddizioni, capace di gesti di grande generosità o di ingiustizie feroci, slanciato in un delirio vitalista dove teatro e vita si confondono caoticamente. E si ride di tutto: meno che della morte, pare.
Forse è da qui che bisognerebbe partire, dalla morte. Lo Scarpetta di Martone, interpretato da un Servillo magnifico, è, per usare le parole dello stesso interprete, un animale spaventato dalla fine incombente della sua arte e della sua vita; il film si apre con la ripresa muta del lungomare di Napoli fatta dei fratelli Lumière nel 1895: il cinematografo è ancora agli albori ma un Eduardo Scarpetta grondante successo e soldi non capisce le potenzialità del mezzo, perché lo avverte come una competizione pericolosa per la propria arte, quindi da scacciare lontano nonostante il figlio Vincenzo – poi pioniere del cinema muto – ne sia già conquistato. Proprio lui che aveva stravinto nella gara con un altro peso massimo, il Pulcinella del suo maestro Antonio Petito, (pretendendo di averlo ucciso con l’invenzione di Felice Sciosciammocca, cui ora spettava lo scettro di nuova maschera di Napoli), fa di tutto per non guardare allo specchio l’inizio di un declino inevitabile. Ed è uno dei tanti esempi del genere nel film, laddove Scarpetta cerca di divorare la vita sempre e comunque, abbandonandosi ai propri istinti come se seguisse un impulso biologico a cui non sa resistere. Quando incontra la nipote Luisa De Filippo (una delle sue tante amanti/mogli con cui ha avuto Eduardo, Titina e Peppino) il gesto ricorrente è quello di baciarla come la stesse mangiando, i sensi sono preda di una ubriacatura simile a quella che deve avere salendo sul palcoscenico, dove non può fare a meno degli applausi del pubblico cui deve tutto. Anche la tendenza a fare figli ininterrottamente ne implica il vitalismo amorale che serve a tenere lontano il pensiero della morte: pur facendosi chiamare sempre “zio” nella vita di tutti i giorni, in una farsa borghese che sembra uscita dal suo capolavoro “Miseria e nobiltà” – dove tutti sanno tutto di tutti ma nessuno è autorizzato a dire le cose come stanno pena la fine della farsa (forse la tragedia) -, nella sua vita lo Scarpetta secondo Martone ha la necessità impellente di circondarsi dei propri figli e delle proprie amanti, il che conduce a un’enorme confusione, a una famiglia allargatissima dove ribollono rancori e gioie condivise, tutte distribuite da un padre-padrone che pretende riverenza per lo sfarzo in cui ha adagiato i suoi affetti. Di più: appena possibile quegli stessi figli, da lui mai riconosciuti legalmente (riconoscerà solo quelli avuti con la moglie Rosa, uno dei quali non è neanche suo ma il figlio di Vittorio Emanuele II), sono buttati sul palco già da bambini, battezzati in teatro dal ruolo di Peppeniello in “Miseria e nobiltà” – scritto in origine per il figlio Vincenzo: in questo sta il riconoscerli come suoi. Succede con Titina, succede con il favorito Eduardo, succede anche con il povero Peppino (cui riserva un’antipatia incomprensibile e una crudeltà glaciale), sottoposti a una rigida educazione in cui la disciplina ha il posto più importante, perché devono imparare il mestiere. Devono essere eredi di una tradizione. Devono quindi tenerlo vivo.
Martone imposta il suo film proprio all’insegna di un dialogo con la tradizione, sia essa storica, teatrale e letteraria. In un percorso non privo di inciampi ma coerente come pochi, da “Noi credevamo” passando per “Capri revolution” e “Il giovane favoloso”, lo step precedente a “Qui rido io” era stata la trasposizione in ambiente camorristico contemporaneo de “Il sindaco del Rione Sanità”, uno dei capolavori di Eduardo De Filippo, che qui ritroveremo bambino: facendo i conti con la Storia e la modernità, Martone fa dialogare di nuovo la storia delle idee con il presente e con il suo stesso cinema. Succede così che il vero snodo drammatico di “Qui rido io” non sia solo la lotta di “una famiglia difficile” (titolo dell’autobiografia avvelenata di Peppino De Filippo) che cerca di uscire dalle grinfie di un uomo di genio egomaniaco: è soprattutto un processo celebre, oggi dimenticato, che contrappose Scarpetta a Gabriele D’annunzio per la parodia de “La figlia di Iorio”. In un processo logorante durato anni, e da Martone ricostruito con grande abilità (l’incontro Scarpetta-D’annunzio è una sequenza irresistibile), a scontrarsi sono non solo due personalità ingombranti che passano dal registro triviale all’aulico – il re del teatro dialettale e il vate – ma diverse ideologie culturali: personalità come Libero Bovio, Roberto Bracco, Raffaele Viviani e soprattutto Salvatore Di Giacomo, che a un teatro popolare e dialettale monopolizzato dal comico – e non avevano tutti i torti – vorrebbero proporre delle alternative valide. Se necessario sfruttando anche i mezzi legali per imbavagliare Scarpetta.
Per due ore “Qui rido io” riesce quindi a sfruttare svariati registri e sottotrame intrecciando il cinema al teatro in maniera convincente, con un montaggio perfetto di Jacopo Quadri: si passa quindi dal metateatro, dove si vive “sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male” come dirà Eduardo De Filippo, alla rievocazione storica affascinante di una Napoli e un’Italia di inizio ‘900; il cast (spicca Cristiana Dell’Anna, ma da segnalare De Francesco/Di Giacomo e Pierobon/D’annunzio) è in stato di grazia e tiene testa ai momenti da mattatore di Servillo, bilanciati per il resto da una malinconia crescente dovuta a una senilità a lungo censurata. Per arrivare al dramma di un individuo che, resosi conto sia del proprio tramonto che del proprio posto defilato dai piani alti dell’establishment culturale, infine lo accetta: vincendo per l’ennesima volta in una arringa/performance dove si confondono teatro e vita, con una risata che, in fondo, li seppellirà.
Nicola Laurenza