“L’uomo tende all’equilibrio”: si intitola così il primo album dei Doc Brown (Discipline Records), nonché il più celebre. Scelta per nulla scontata e banale, dato che il titolo si rifà al principio di termodinamica chimica di Le Châtelier-Braun, più semplicemente conosciuto come il principio dell’equilibrio mobile.
Un sistema, spiega a grandi linee il postulato, è propenso a rispondere agli stimoli che gli sono imposti dall’ambiente esterno, riducendone gli effetti. La nostra struttura di riferimento è l’uomo. Anche l’essere umano, proprio come un elemento chimico, tende a reagire alle circostanze ambientali critiche, tali ciò da portarlo ad uno stravolgimento del proprio ordine preesistente, cercando di minimizzarne gli effetti.
In un contesto sociale estremo come quello che stiamo vivendo, in parole semplici, l’uomo riesce a conservare un minimo di lucidità, rifugiandosi nei propri atti dalla natura elementare: innamorandosi, portando a passeggio il cane, mangiando una fetta di torta, tanto per fare qualche esempio pratico. Gesti banali, ma che riportano l’anima ad una stabilità interiore, anche se al di fuori tutto esplode.
Vi presentiamo i Doc Brown (Alberto Bosisio, voce / Domenico Diano, chitarra e cori / Gabriele Galbusera, basso / Davide Radice, batteria), cinque ragazzi di Monticello Brianza (LC), cinque amici con qualcosa da dire.
Chi siete? Perché lo fate? Come avete iniziato?
«Siamo cinque amici che si conoscono fin dall’infanzia, cresciuti in provincia. Abbiamo iniziato a suonare insieme, quasi per caso, nei primi anni Duemila. A dire il vero, non sappiamo spiegarvi neanche noi esattamente il motivo che ci ha portato a farlo. Eravamo in vacanza e ci è venuta l’idea! Spieghiamoci meglio: tutti noi suonavamo già, ma con altri gruppi. Siamo nati come un progetto trasversale, addirittura secondario rispetto a quanto già facevamo individualmente; era una valvola di sfogo per sperimentare cose che con i rispettivi “gruppi ufficiali” non potevano portare avanti. Poi, come spesso accade, ha preso il sopravvento su tutto il resto. All’inizio era un progetto quasi del tutto sperimentale: non avevamo neppure un cantante, pian piano, tramite alcuni cambi di formazione, abbiamo iniziato ad evolverci musicalmente. Ed eccoci qua!»
Doc Brown, perché questo nome?
«Doc Brown, per chi non lo avesse compreso, è un chiaro rimando ad un personaggio televisivo che adoriamo alla follia, il celebre professore di “Ritorno al futuro”. Questo semplicemente perché nel momento in cui stavamo cercando un nome per il gruppo siamo incappati nel film. Abbiamo trovato che Doc Brown suonasse bene.»
A quanto pare, l’ossessione per quanto inerente il mondo della scienza (e/o della fantascienza) vi perseguita. O si tratta di un caso?
«Sinceramente non avevamo mai badato a ciò, ma è un’osservazione più che corretta: la scienza ci ossessiona! Forse perché qui – fatta eccezione per un grafico – siamo tutti scienziati mancati: due chimici, un informatico…»
Dato che, come ci avete raccontato, siete tutti dei “quasi scienziati”, divaghiamo un attimo sulla pura teoresi. Cos’è la scienza per i Doc Brown? Quanto questa componente delle vostre vite ha influito nel rapporto che avete con la vostra arte?
«Rispondere così su due piedi, non è cosa da poco! La scienza è un metodo, un espediente che mira alla risoluzione dei problemi, posti come dati. Propendendo alla miglioria e alla modifica dei postulati, e giungendo infine a modificarli, risolve quesiti non di poco conto. La adoriamo perché tutto questo è destabilizzante, così come vuol essere la nostra musica dai mille volti: moderna, pop, italiana e via discorrendo!»
I vostri brani – voi stessi ce lo avete poco fa confermato – si presentano come un crogiolo di stili. Quali anime convivono nella musica dei Doc Brown?
«I nostri riferimenti musicali, influenze e ascolti sono diametralmente opposti. Solo due dimostrazioni pratiche per dare un’idea delle differenze che intercorrono: Diano è un grande estimatore di Ivan Graziani, Davide, come si può desumere dal suo look da santone indiano, è molto legato al rock anni Settanta-Ottanta, Led Zeppelin e Mötley Crüe su tutti.»
Senza cadere in un moralismo politicamente inefficace, secondo voi che quotidianamente vi interfacciate col pubblico, quanto conta l’immagine nel panorama musicale odierno, fatto di bella forma e poca sostanza?
«Per una band come noi è un fattore di vitale importanza, rappresenta almeno un quaranta percento della componente artistica. Non riteniamo valga quanto la capacità di creare buona musica, è un aspetto imprescindibile dalla qualità. Una performance dal vivo è anche uno spettacolo visivo, non solo acustico; è, dunque, naturale che la percezione che l’ascoltatore ha dell’artista giochi un ruolo di spessore. Sul palcoscenico l’immagine diventa fondamentale. Detto questo, non intendiamo riferirci a dei comportamenti preconfezionati e/o al manierismo, ma ad un qualcosa di più impalpabile, che potrebbe essere racchiuso nella parola “carisma”. In questo senso, riteniamo che anche il saper creare un’immagine di sé ben delineata possa considerarsi una forma di talento a tutti gli effetti.»
Vincenzo Nicoletti