Tra accordi raggiunti all’ultimo momento, aspettative disattese e colpi di scena, si è ufficialmente conclusa la ventiseiesima edizione della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite. Durata da calendario 12 giorni, ma protrattasi oltre la data conclusiva, la Cop di Glasgow è entrata nel vivo nella seconda settimana di lavori, quando inaspettatamente è stato raggiunto un accordo di cooperazione tra Stati Uniti e Cina. Gli inviati speciali di Washington e Pechino, John Kerry e Xie Zhenhua, hanno spiegato che «le parti riconoscono lo scarto esistente tra gli sforzi attuali e ciò che sarebbe necessario» e che – per tanto – collaboreranno per contenere l’aumento delle temperature al di sotto di 1,5 gradi centigradi, come stabilito dall’accordo di Parigi. In particolare, azioni climatiche più decise e ambiziose sono previste proprio per gli anni venti di questo secolo.
A parte queste dichiarazioni d’intenti, però, i dettagli della nuova collaborazione tra Cina e Stati Uniti restano ancora troppo evanescenti. Indubbio, invece, è il valore simbolico dell’accordo raggiunto a Glasgow. Quest’ultimo, infatti, non solo potrebbe rappresentare il primo passo verso una distensione diplomatica dei rapporti tra le due superpotenze ma, soprattutto, potrebbe contribuire a diffondere un messaggio fondamentale: la crisi climatica è la sfida più grave e complessa del nostro tempo e potrà essere arginata solo attraverso un approccio cooperativo. Un approccio in grado di andare oltre interessi nazionali e competizioni strategiche. Restiamo, però, nel campo ipotetico dei “potrebbe” e con quelli ci sono ben poche possibilità di risollevare le sorti dei negoziati sul clima, figuriamoci quelle del Pianeta.
Un altro impegno potenzialmente rilevante assunto durante la Cop26 è rappresentato dal cosiddetto Boga (Beyond oil and gas alliance). L’iniziativa, promossa da Danimarca e Costa Rica, è volta a bloccare i permessi per le esplorazioni e lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi, con l’obiettivo finale di eliminare completamente la produzione di petrolio e gas nei territori dei Paesi aderenti. I firmatati – tra cui figurano anche Francia, Irlanda e Svezia – sono però ancora poco numerosi e, soprattutto, nessuno di loro può vantare una produzione di idrocarburi di rilievo. Non a caso, in quanto secondo maggiore produttore di petrolio dell’Unione Europea, l’Italia si è limitata ad aderire all’accordo con lo status di friend, che prevede l’impegno minimo di allineare la futura estrazione italiana di petrolio e gas a quanto già previsto dall’accordo di Parigi del 2015. «Il punto» spiega il ministro della transizione ecologica Cingolani «è che siamo una nazione energivora, siamo una delle più grandi manifatture del mondo, quindi per Paesi più piccoli e poco manifatturieri è più semplice». Da qui l’impegno poco ambizioso, che si somma alla lunga serie di proposte e dichiarazioni controverse del ministro più discusso del governo Draghi.
Grande assente dal Boga è il Regno Unito che, pur ospitando la Cop26, non è tra i firmatari dell’accordo. Mancano anche Stati Uniti, Cina, Russia, Germania e, naturalmente, quei paesi come l’Arabia Saudita che fondano le loro economie sulle risorse petrolifere. Eppure, stando a uno studio recentemente pubblicato su Nature, per avere una probabilità del 50% di non superare la soglia degli 1,5°C dovremmo lasciare nel sottosuolo l’89% delle riserve di carbone, il 58% di quelle di petrolio e il 59% di quelle di gas naturale. Un obiettivo, quest’ultimo, che risulta in contrasto con gli attuali piani dei governi. Infatti, come si legge sullo stesso sito del Boga, a livello mondiale è previsto un aumento della produzione di petrolio e gas che comporterebbe una produzione di gas entro il 2030 superiore del 57% rispetto alla soglia che sarebbe coerente con il limite degli 1,5°C.
Anche questa iniziativa, dunque, si porta dietro non poche contraddizioni che allontanano ulteriormente la possibilità che la Cop26 possa essere considerata – a posteriori – una Conferenza decisiva nella lotta al cambiamento climatico. Ma se all’interno del palazzo delle decisioni politiche sono state proposte soluzioni per lo più insufficienti e impegni inadeguati, una forte voce di protesta si è elevata tra le strade di Glasgow. E proprio questo, forse, è stato il merito più grande (quanto involontario) della Cop26: aver fornito un luogo di incontro a tutte quelle voci insoddisfatte e bistrattate che hanno trovato nel movimento ambientalista il loro minimo comune denominatore. Perché non c’è ingiustizia sociale che non si alimenti nella crisi climatica. Ma questa è una consapevolezza che riesce a diventare tale solo per chi – ogni giorno – vede aprirsi sulla propria pelle le piaghe della diseguaglianza, dell’oppressione e della marginalizzazione. Nulla di cui stupirsi, dunque, se la politica, impegnata com’è a crogiolarsi nei suoi privilegi, ha sprecato l’ennesima occasione per riscattare le sorti dell’umanità.
Un fallimento che passa attraverso l’accordo annacquato con cui si è conclusa la Cop26. La dichiarazione conclusiva, infatti, è stata svilita dalla richiesta arrivata all’ultimo momento da parte di India e Cina, che hanno chiesto di attenuare ulteriormente la formulazione impiegata nel testo per parlare di carbone e sussidi alle fonti fossili. In particolare, i due Paesi hanno ottenuto la sostituzione dell’espressione “phase-out”, che significa abbandono, con “phase-down”, che invece significa riduzione. In questo modo, gli sforzi di accelerazione verso la completa eliminazione del carbone vengono trasformati in sforzi meno ambiziosi per la graduale riduzione dell’energia a carbone. Un (non) impegno che, si stima, provocherà un aumento delle temperature di 2,4 gradi centigradi entro il 2100, frapponendo così un ulteriore ostacolo tra la specie umana e la sua stessa sopravvivenza.
Virgilia De Cicco