Nella storia della fuga dell’ex presidente Evo Morales dalla Bolivia, scappato dopo quello che molti (e lui in primis) hanno definito come un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, esistono diversi punti oscuri.
Gli attori principali di una vicenda contorta e intricata, sia sul piano interno che internazionale, sono almeno quattro: lo stesso ex mandatario, l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), l’esercito con l’opposizione di destra e infine il Messico, che ha concesso subito asilo politico a Evo Morales.
Obiettivi e interessi di ciascuno di questi grandi attori si sono intrecciati negli ultimi giorni, dando vita a un clima di pericolosa incertezza e precarietà in Bolivia. Quello di Evo Morales e della sua caduta è dunque uno strano caso in cui, tra accuse incrociate e tensioni crescenti, l’unica vittima accertata è il popolo boliviano, che ancora rischia di sprofondare nel baratro del disordine o, peggio, del conflitto civile.
Evo Morales ancora presidente (o no?)
Il 20 ottobre scorso in Bolivia si sono svolte le elezioni presidenziali, che al primo turno hanno ancora una volta dato la vittoria al presidente uscente Morales. Un risultato, questo, a prima vista ben poco sorprendente, considerato che il mandatario era in carica dal 2006 ed è sempre apparso saldo al vertice del suo Paese, grazie anche alle importanti riforme sociali intraprese negli anni.
In questa vicenda il primo e fondamentale problema è però che Evo Morales non avrebbe potuto ricandidarsi per il quarto mandato consecutivo, almeno ai termini della Costituzione boliviana vigente (che lui stesso aveva promosso nel 2009).
Nel 2016, un referendum costituzionale aveva bocciato proprio l’inserimento nella Carta di un’apertura a un quarto mandato presidenziale. Si era trattato della prima, vera sconfitta politica per Evo Morales da quando era salito al potere: il primo segnale di un’incrinatura nella popolarità cristallina di cui aveva appunto goduto fino ad allora e un segnale di insofferenza verso la crescente “padronalizzazione del potere” attuata dal primo presidente indio nella storia del Paese.
Tale “padronalizzazione”, processo che spesso segna la trasformazione della democrazia in una dittatura, di una presidenza legittima in un caudillismo autoritario, è fenomeno ricorrente in America latina, ma da un personaggio come Evo Morales forse ce la si aspettava meno, a causa della sua obiettivamente pregevole opera politica di stampo “neosocialista“, determinante per ridurre drasticamente gli elevati livelli di povertà dei boliviani.
Ad ogni modo, grazie a una sentenza del Tribunale Costituzionale, Morales si era visto riconoscere, in quanto “diritto umano“, la possibilità di una ricandidatura di fatto incostituzionale: tale diritto era stato riconosciuto dal Tribunale come naturale e sovraordinato rispetto alla norma scritta, più restrittiva, venendo caratterizzato di fatto come “supercostituzionale“. La decisione della Corte sembrava dunque un buon viatico per la quarta rielezione, considerato anche che i sondaggi davano in testa proprio Morales.
Il ruolo dell’OSA
Di solito, però, quando esiste il sospetto di un’elezione controversa scattano le contromisure da parte degli osservatori internazionali. In questo caso, l’OSA, una volta osservati i primi dati sullo scrutinio che vedevano in testa proprio Evo Morales, ha insinuato dubbi sulla reale attendibilità della consultazione.
La reazione del governo boliviano all’accusa di brogli era stata dura: trovavano conferma, secondo Evo Morales e i suoi, le voci di un colpo di Stato ai suoi danni, ordito dalla destra col supporto internazionale (per la verità, anche gli avversari di Morales avevano gridato al golpe, accusando il presidente). Tuttavia, il governo si era detto disposto a far revisionare i risultati da parte di organismi come la stessa OSA, l’ONU e l’Unione Europea, che intanto stavano caldeggiando questa ipotesi.
Con gli Stati Uniti tra i più accesi membri dell’OSA a confermare le voci di un colpo di Stato, ordito da Evo Morales allo scopo di farsi rieleggere, la controffensiva mediatica del presidente boliviano si era dunque focalizzata sull’ipotesi di un complotto trumpiano ai suoi danni, mettendo in discussione la stessa credibilità dell’Organizzazione degli Stati Americani, implicitamente accusata di essere manovrata dagli USA.
La destra e la fulminea ascesa di Jeanine Áñez
Nel frattempo, la destra mobilitava il Paese, sobillando la popolazione nelle città e causando scontri di piazza che sembravano far presagire il peggio. Con dinamiche ancora poco chiare, l’esercito “consigliava” a questo punto a Morales e ai suoi fedelissimi di abbandonare la presidenza e il governo, per il bene del Paese. Intanto, i leaders dell’opposizione incalzavano il presidente, condendo la propaganda di piazza con una ben studiata retorica e simbologia cattolica, quasi a voler indicare la caduta di Morales come una sorta di processo di redenzione e liberazione collettiva.
A questo punto, a Evo Morales non restava che dimettersi e lo stesso toccava alle più alte cariche dello Stato. Ne risultava un vuoto di potere drammaticamente profondo. La vicepresidente del Senato ed esponente proprio della destra, Jeanine Áñez, ultima in ordine di successione costituzionale a poter assumere l’interim presidenziale, si ritrovava dunque con la grande opportunità di colmare quel vuoto.
Presentandosi in Parlamento con la Bibbia, chiedeva il voto dell’assemblea che avrebbe potuto confermare la sua nuova carica suprema. In realtà, per mancanza del numero legale, non si sarebbe potuto procedere a una votazione valida: eppure, la Áñez si autoproclamava presidente, di fatto completando un illegale passaggio di consegne, nel silenzio dell’esercito.
La fuga di Evo Morales in Messico
Con la violenza in aumento nelle strade della capitale La Paz, dove le abitazioni di diversi politici venivano prese di mira dalla folla inferocita, assaltate e saccheggiate, a Evo Morales non restavano molte alternative: temendo per la propria vita, ai primi di novembre progettava la fuga.
Qui entrava in scena il Messico. Il presidente dell’attuale governo di sinistra, Andrés Manuel López Obrador, con un processo decisionale anche in questo caso repentino e poco chiaro, decideva di offrire asilo a Morales a Città del Messico. Bisognava però far uscire l’ormai ex presidente dalla Bolivia, operazione non facile a causa della chiusura ad hoc dello spazio aereo da parte di alcuni vicini, su tutti Paraguay ed Ecuador.
L’aereo militare inviato dal Messico era costretto dunque a un tortuoso percorso, che infine portava Morales a sbarcare a Città del Messico pochi giorni fa. In una prima conferenza stampa, il prestigioso rifugiato politico raccontava gli eventi dal suo punto di vista, sottolineando la violenza dell’opposizione boliviana a lui ostile e insinuando ancora l’asservimento dell’OSA agli Stati Uniti, che intanto, proprio in una riunione dell’Organizzazione, nello stesso momento confermavano l’accusa di brogli nei confronti di Morales e la “giustizia” dell’abbattimento del suo potere.
Oggi, la notizia dell’asilo concesso dal Messico fa rumore, sia in Bolivia che proprio nel Paese nordamericano. Jeanine Áñez apertamente afferma alla CNN che i messicani “le fanno pena” per come si sono comportati; López Obrador, dal canto suo, difende l’iniziativa adottata, dichiarandosi ammiratore dell’ex presidente boliviano, decantandone le politiche sociali e assicurando che l’asilo messicano sarà completo e accogliente. Morales, invece, dichiara di essere pronto a intavolare un dialogo con le opposizioni, per mettere al sicuro il futuro della Bolivia.
In Messico, intanto, l’opinione pubblica si interroga sul senso dell’ospitalità concessa a un personaggio che, nell’ultimo periodo, è sembrato in ogni caso decisamente controverso. Si sospetta che la mossa di López Obrador abbia molteplici finalità: smarcarsi con forza dagli Stati Uniti, dando prova di indipendenza politica e diplomatica, nonché di sapienza logistica e militare (avendo inviato d’autorità un aereo a prelevare in Bolivia Morales); segnalare il Messico come alfiere di una possibile alleanza tra i superstiti della sinistra latinoamericana, ormai decisamente indeboliti, considerate le difficoltà estreme di Maduro in Venezuela, l’emarginazione cubana e, appunto, la caduta di Evo Morales; distogliere l’attenzione dal fronte interno, dove López Obrador è nel mirino a causa dell’insufficiente politica di contrasto alla violenza dei narcos, specialmente all’indomani della terribile strage di mormoni statunitensi nel nord del Paese.
La partita a scacchi internazionale è appena iniziata. Il popolo boliviano, però, forse ha già perso.
Ludovico Maremonti