Venerdì 15 febbraio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, durante un discorso tenuto nel Giardino delle Rose alla Casa Bianca. Tale dichiarazione, giustificata, secondo il Presidente, dall’aggravarsi della “crisi migratoria” e del traffico clandestino di droga lungo il confine meridionale degli USA con il Messico, ha suscitato pesanti accuse da parte dell’opposizione democratica (e non solo), che vede in tale mossa un precedente pericoloso e perfino una potenziale violazione alla Costituzione degli Stati Uniti.
Background: gli USA dallo shutdown all’emergenza nazionale
Per capire cosa sta accadendo in questo preciso istante negli Stati Uniti, dobbiamo tornare a qualche mese fa, riassumendo in breve ciò che avevamo già analizzato in uno dei nostri articoli: dal 22 dicembre 2018 al 25 gennaio 2019, gli USA hanno sperimentato il più lungo shutdown della storia del “nuovo continente” (della durata di ben trentacinque giorni). Durante questo periodo, più o meno 800.000 impiegati statali hanno lavorato senza ricevere stipendio: le ragioni di quello che in italia chiameremmo “spegnimento” sono dovute al mancato accordo tra governo e Congresso sulle spese e lo stanziamento di fondi per questo nuovo anno.
È infatti il Congresso che, negli USA, decide come gestire il bilancio statale: senza approvazione da parte del Senato e della Camera, che da novembre è a maggioranza democratica, Trump è bloccato in ogni progetto che richieda stanziamento di fondi.
Il fondamentale punto di disaccordo tra Congresso ed esecutivo è l’allocazione di 5.7 miliardi di dollari, che il Presidente ha richiesto per la costruzione di un muro protettivo al confine con il Messico: tale proposta è stata irremovibilmente bocciata dalla maggioranza dei deputati alla Camera.
Dopo i trentacinque giorni di shutdown, che hanno provocato un calo notevole dell’appoggio dei cittadini americani nei confronti dell’amministrazione Trump, il Presidente ha deciso di firmare un accordo provvisorio con il Congresso della durata di tre settimane.
Giovedì 14 febbraio, allo scadere del periodo previsto, il governo ha finalmente approvato la legge di rifinanziamento proposta dal Congresso, che concede “soltanto” 1.375 miliardi di dollari per la costruzione di una barriera di 55 miglia al confine con il Messico.
Il giorno seguente, nonostante il firmato accordo, il presidente Trump ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale.
Le implicazioni del dichiarato stato di emergenza nazionale
Tramite la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, Trump potrà scavalcare il congresso sulla decisione dello stanziamento dei fondi necessari alla costruzione del muro al confine con il Messico: il Presidente non avrebbe infatti nessuna intenzione di accontentarsi dei 1.375 miliardi di dollari che il Congresso gli ha concesso lo scorso giovedì.
Il suo piano sarebbe quello di stanziare 8 miliardi di dollari nel progetto, aggiungendo ai soldi concessi dalla legge di rifinanziamento la redistribuzione di fondi già allocati: nello specifico, sottraendo 3.6 miliardi di dollari dalla costruzione di infrastrutture militari (ospedali ecc.), 2.5 miliardi dalle operazioni di lotta al narcotraffico e 600 milioni dal Dipartimento del Tesoro.
Tale mossa creerà un caso senza precedenti nella legislatura americana: se, infatti, da quando il National Emergency Act è in vigore (1979), lo stato di emergenza nazionale è stato invocato moltissime volte per motivazioni legate a sanzioni, commercio o restrizioni in merito ad armi, soltanto un’altra volta nella storia è stato dichiarato lo stato di emergenza negli USA per motivi militari: il 14 settembre 2001, tre giorni dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle.
Ma non è questo il punto: il vero precedente verrà creato dal fatto che, per la prima volta, il presidente degli Stati Uniti userà lo stato di emergenza nazionale per compiere un’azione specificatamente rigettata dal Congresso. È proprio qua che incorre il rischio: è costituzionale permettere al potere esecutivo di bypassare il potere legislativo con una mossa così dubbia?
Le voci levate dall’opposizione: la dichiarazione di emergenza nazionale è un attentato alla democrazia da parte del presidente Trump.
Secondo l’opposizione democratica non sussistono le circostanze per dichiarare lo stato di emergenza nazionale. Durante gli ultimi diciotto anni, infatti, i numeri riguardanti l’immigrazione al confine con il Messico sono in calo più o meno costante: da 1.6 milioni nel 2000 siamo passati a 400.000 immigrati annui.
Lo stesso Presidente, dopo il discorso di questo venerdì, ha dichiarato che non era necessario invocare lo stato di emergenza, ma che questo era il modo più veloce per ottenere stanziamenti per il controllo dei confini meridionali del Paese.
Con questi presupposti, la mossa del Presidente potrebbe essere considerata non costituzionale e, come dichiarano alcune voci dell’opposizione, antidemocratica: in gioco è, infatti, l’equilibrio e la divisione dei poteri (esecutivo e legislativo) e il caso potrebbe creare un pericoloso precedente per le future legislazioni.
Ad ogni modo, non solo l’opposizione democratica si è rivelata contraria alla dichiarazione dello stato di emergenza nazionale del presidente Trump: anche una mezza dozzina di repubblicani hanno espresso dubbi in merito alla costituzionalità e alla necessità della dichiarazione.
Cosa succederà adesso negli USA?
Il Congresso ha soltanto due strade percorribili davanti a sé: da una parte appellarsi al National Emergencies Act per porre fine allo stato di emergenza nazionale, dall’altra far ricorso al sistema giudiziario. Analizziamo entrambe le possibilità.
La prima possibilità
Il National Emergencies Act del 1979 permette a Camera e Senato di attuare una risoluzione congiunta per terminare lo stato di emergenza nazionale, nel caso in cui i due organi ritenessero irresponsabili le azioni del presidente. Tale risoluzione, una volta approvata da una camera dovrà essere approvata dall’altra entro diciotto giorni. La Camera, a maggioranza democratica, riuscirebbe senza problemi ad approvare tale risoluzione: qualche dubbio rimane invece sul Senato, a prevalenza repubblicana, dove basterebbero tuttavia pochissimi voti rossi per trovare la maggioranza necessaria.
Il vero problema si presenterebbe soltanto in seguito: una sentenza del 1983 della Corte Suprema dà infatti al presidente potere di veto su ogni tipo di risoluzione congressuale, compreso il caso precedentemente descritto. Per superare il veto che sicuramente Trump porrebbe su tale tipo di risoluzione servirebbe una maggioranza qualificata di 2/3 in entrambe le camere. Tali numeri sarebbero difficili da ottenere non solo al Senato, ma anche alla Camera dei rappresentanti.
La seconda possibilità
La seconda possibilità consiste nel chiamare in giudizio il caso: nessuna legge che Trump potrebbe invocare durante lo stato di emergenza nazionale per ricollocare fondi contro la volontà del Congresso sembra perfettamente appropriata al caso specifico e, inoltre, come discusso in precedenza, le cause che hanno portato alla dichiarazione dello stato di emergenza sembrano dubbie.
Il grande quesito, in questo caso, riguarda l’attitudine delle corti stesse: il Dipartimento di Giustizia potrebbe infatti argomentare che non spetta alle corti dare un giudizio su una questione così politica come la fondatezza dello stato di emergenza. Esiste una lunga casistica di corti riluttanti sull’esprimersi, al posto del presidente, su questioni riguardanti la sicurezza nazionale. Perché mai questo caso dovrebbe differire dagli altri?
Fururo incerto per gli Stati Uniti di Trump
Insomma, è difficile prevedere il prossimo futuro degli USA, soltanto nelle prossime settimane sarà possibile capire se la decisione di Trump è stata uno scacco matto o soltanto una diversiva mossa di pedone per guadagnare tempo di fronte ad una non poco problematica scacchiera politica.
Viola Scalacci