Anche no. Giusto per rispondere alla domanda del titolo e dare subito un senso a questa sorta di editoriale (molto tardivo).
Possiamo dire senza imbarazzi che la sconfitta del Joker nella categoria miglior film sia la cosa migliore che potesse capire in quest’edizione degli Oscar 2020. E non perché, lo stolto che scrive, tradisca un’insopprimibile preferenza o perché la pellicola di Todd Phillips non abbia dei chiari meriti cinematografici
No. In quest’annata era evidente che ci fossero film più forti del clown killer. O, comunque, sicuramente più originali.
Argomentiamo questa posizione.
Il Joker di Todd Phillips (qui la recensione) è iconico, un quadro in movimento per la bellezza di certe sequenze, connubio perfetto di fotografia, musiche e recitazione cristallizzate in una pellicola. Ma siamo andati incontro a un prodotto fin troppo derivativo, prevedibile, normalizzato in un prodotto familiare (e facilmente decodificabile) per il grande pubblico e non così stratificato come vorrebbe apparire (o come qualcuno vorrebbe venderlo).
Un film che racconta di un’anima buona e problematica resa spietata dalla società indifferente. Qualcosa di già sentito, troppe volte.
Immaginate se fra quindici anni qualcuno scrivesse di “Giggino lo spostato” e che quest’ultimo sia ambientato a Napoli. L’incipit sarebbe quello di un uomo tanto perbene quanto fragile dal punto di vista psicologico, tradito prima dalla società e poi nel suo intimo. Mettiamoci, in aggiunta, l’elemento femminile che fa da equilibratore al suo fragilità. Una figura che nel momento in cui si allontana (fisicamente e moralmente) determina il crollo definitivo del protagonista che si ribella con feroce indifferenza alla società, la stessa mostrata da quest’ultima all’uomo.
Ecco, chi fosse in grado di realizzare un film del genere, forse, verrebbe applaudito, soprattutto se riuscisse a rendere bene la trasformazione dell’uomo, se la esaltasse con una colonna sonora e una fotografia azzeccatissima, se il film fosse arricchito da una sceneggiatura e una regia onirica. Ma è altrettanto vero che, a quel punto, il premio sarebbe da dividere con lo stesso Joker, e prima di quest’ultimo, con Taxi Driver.
A livello di struttura, di grammatica, di narrazione, infatti, Giggino lo spostato, Joker e Taxi Driver sono film molto simili fra loro; nella sensibilità e nel modo di recepire e raccontare il disagio, l’inquietudine che deriva dall’abbandono.
E no, non sarebbe giusto, forse troppo facile per chi è chiamato a giudicare, premiare sempre lo stesso film.
Abbiamo citato Martin Scorsese, un altro di quelli che erano alla cerimonia e con The Irishman ambiva a diverse statuette e, invece, è rimasto a bocca asciutta. Giustamente. Come il C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, il suo film è un totem personalistico, impressionante cinematograficamente parlando, ma che non ha nulla del film migliore di quest’annata.
Ogni film deve dire qualcosa di nuovo, o qualcosa di vecchio in maniera inedita. E The Irishman come Joker, non fanno nulla di tutto ciò, per quanto brillino di una luca intimamente propria e abbagliante.
Gli Oscar in passato ci hanno insegnato che logiche politiche, commerciali e campanilistiche, solitamente, sono le variabili che fanno pendere le preferenze della giura verso un film piuttosto che un altro. Con stupore misto a piacere notiamo che quest’edizione rompe finalmente con questa lunga tradizione. Ci dispiace che sia stato proprio Joker a pagarne lo scotto.
D’altronde sarebbe stato facile omaggiare Bong Joon Ho e il suo Parasite come “miglior film straniero” e lasciare ad un film “americano”, di un genere in ascesa, il prestigio del titolo più importante. Un colpo al cerchio e una alla botte, quest’ultima sempre rigorosamente americana. E invece stavolta così non è stato, una testimonianza d’imparzialità (non di obiettività, perché nel cinema, come nelle altre forme artistiche, l’obiettività non esiste).
Forse perché è stato afferrato anche dai più patriottici e sciovinisti l’efficacia della pellicola “coreana” in raffronto all’oleografia di Joker.
Il film di Bong Joon Ho, come quello di Todd Phillips, han provato a raccontare in maniera cinematograficamente raffinata di emarginati. Di coloro cercano di aggrapparsi con tutte le forze a un mondo che li estromette. Ci sono gli integrati, distratti da problemi immaginari, e gli isolati, che devono provarle tutte per sopravvivere, fino a diventare “qualcos’altro”. Una sorta di catena sociale infrangibile che segna un divario incolmabile.
Parasite, come Joker, dunque, racconta con grande sensibilità una realtà assodata, ma che mostrata diventa difficile da digerire. E un po’ viene da vergognarsi.
È per questo, forse, che apprezziamo tanto i due film. Ma a differenza di Joker, Parasite, mostra la verità con grande realismo e schiettezza, senza enfasi eccessiva e senza vittimizzare la parte lesa. Lo fa attraverso gli spazi, gli atteggiamenti, i movimenti di camera, il tono dei characters.
E questo significa dire qualcosa di antico come il mondo ma in modo nuovo.
Joker impara.
Enrico Ciccarelli