È il 1934 e il poeta surrealista André Breton, per suggellare la fine di un’amicizia, nonché di un sodalizio intellettuale con l’eccentrico Salvador Dalì, ne stravolge ad arte nome e cognome, coniando ad hoc un anagramma concepito per dar voce all’astio che si era sviluppato tra i due. “Avida Dollars” è il gioco di parole che fa da contropartita alla provocazione dell’artista catalano che, a testimonianza della propria indole di genio capriccioso, arrivò addirittura a dichiarare “il surrealismo sono io!” per farsi beffe dell’allontanamento perpetrato ufficialmente dal gruppo dei surrealisti di Montparnasse ai suoi danni.
Al Palazzo delle Arti di Napoli è di scena la mostra “Io Dalì”, dedicata all’uomo che, prima ancora di farsi artista, si è fatto arte. “Si tratta di un grande viaggio nella mente di uno dei più geniali interpreti del XX secolo”, questo ciò che recita il pamphlet promozionale. Il viaggio intorno al mito che la mostra si presuppone di offrire agli spettatori è, in realtà, uno zibaldone di stampe più o meno conosciute del marchese di Púbol. Protagonisti assoluti, nonché marchio di fabbrica di Dalì, i baffi immortalati da Philippe Halsman che sfidano, vincendo, la forza di gravità.
Sul bordeaux delle pareti del PAN si alternano vari pannelli, in cui viene dettagliatamente esposta la vita del genio surrealista, a citazioni ad effetto dello stesso Dalì; alcune teche contenenti riviste dell’epoca che hanno dedicato la propria copertina a questo artista poliedrico o che sono state create da lui stesso. Chi, scendendo alla fermata della linea 2 della metro di Piazza Amedeo, si aspetta di poter ammirare alcuni degli storici dipinti di Dalì, farà bene ad imbarcarsi sul primo volo in direzione di Figueres, città natale dell’artista, nonché luogo in cui è conservata buona parte delle sue opere.
A tal proposito, però, merita una menzione speciale il documentario sul teatro-museo di Figueres presente all’interno della mostra al PAN che, forse, avrebbe potuto essere collocato all’inizio del percorso per permettere agli spettatori di meglio comprendere il senso di alcune delle altre stanze.
I contenuti della mostra si rivelano sicuramente interessanti. Ciò che emerge, dopo aver letto della vita di questo straordinario artista e aver ammirato fotografie che lo ritraggono nelle pose più eccentriche, è un Dalì uomo. L’animo ribelle che si manifesta ancor prima di prendere in mano il pennello e che perdura fino alla sua scomparsa nel 1989, caratterizza tutto il percorso ideato per la mostra. Affiora sornione in ogni posa plastica, in ogni citazione o provocazione perpetrata da Dalì: ricordiamo, fra le tante, la bizzarra trovata di presenziare all’inaugurazione della “The International Surrealist Exhibition”, tenuta presso le New Burlington Galleries di Londra, vestito da sub, affermando di volersi immergere nelle profondità dell’inconscio.
Ancor più emblematica la critica dell’artista catalano nei confronti del suo connazionale Antoni Gaudì: presente nella mostra la videoripresa della performance che vede protagonista un Dalì estremamente sicuro di sé mentre dipinge la sua versione della più celebre opera di Gaudì, la Sagrada Familia, utilizzando del catrame a mo’ di tempera. Un artista a tutto tondo, impossibile da incasellare negli angusti confini di una specifica corrente o, addirittura, in una determinata forma d’arte. Pittore, scultore, fotografo, designer, sceneggiatore, cineasta, scrittore, Dalì ha fatto della sua vita una tela sulla quale passare pennellate decise di egocentrismo e megalomania. Ma a buon ragione. Una sorta di Re Mida dell’arte: tutto ciò che il suo genio toccava, riusciva a trasformarsi in oro.
Perché, dunque, Avida Dollars? Per via del rapporto di Dalì col mercato, rapporto che fa da fil rouge a tutta la mostra. Testimonial della cioccolata Lanvin, Dalì realizzava gioielli e componenti d’arredo, decorava Vespe, confezionava servizi fotografici e articoli per riviste del calibro di Vogue e The Herald, si dedicava a collaborazioni di varia natura, tra cui quella con Walt Disney che diede vita al cortometraggio Destino. Persino la scelta delle sue muse ispiratrici fu perfettamente studiata e funzionale ad accrescere ulteriormente la sua già ampia visibilità agli occhi del pubblico: prima fra tutte Gala, poi divenuta sua moglie; a seguire Isabelle Collin Dufresne (in arte Ultra Violet) che lo abbandonò per unirsi alla Factory di Andy Warhol; ultima ma di sicuro la più importante, Amanda Lear (definita come il “Frankenstein” di Dalí in quanto l’artista contribuì a fomentare i dubbi sulla vera identità sessuale della donna al fine di aumentare l’alone di mistero che si era creato negli anni intorno al loro rapporto).
In definitiva, la mostra offre uno spaccato dell’eccentrica personalità dell’artista catalano, finendo per diventare un Bignami interattivo, un’enciclopedia ben studiata di volumi che permeano le pareti dell’esposizione quasi a voler avvolgere lo spettatore, a volerlo circondare di storia, di vissuto, senza mancare di sottolineare il carattere del genio che, per definizione, non può essere umile. Quello di Salvador Dalì è un genio dirompente, esagerato, così come ha egregiamente spiegato George Orwell:
«Bisognerebbe essere capaci di tenere presente che Dalí è contemporaneamente un grande artista ed un disgustoso essere umano. Una cosa non esclude l’altra né, in alcun modo, la influenza.»
Sara Cerreto