Grandi Dionisie festa teatro Dioniso
'Grandi Dionisie' ©https://ditirambo.jimdofree.com/

In ogni civiltà, mono o politeista di qualsivoglia epoca, il concetto di festività religiosa si traduce nell’adunanza di un gruppo di persone appartenenti a quella stessa cultura, in nome del proprio credo. Nell’antica Grecia, riunire l’intera cittadinanza, sospendendo persino gli ordini di guerra in corso, significava una sola cosa: era tempo di teatro. Precisamente, era il momento delle Grandi Dionisie, festeggiate ad Atene tra il 10 ed il 14 nel mese di Elafebolione (marzo-aprile del calendario giuliano).

Il culto di Dioniso, particolarmente sentito in Beozia e in Attica, si divideva tra dionisie rurali (o Piccole Dionisie) e quelle urbane (o Grandi Dionisie). Durante le prime, era tipico che si celebrasse la falloforia, o processione del fallo, un esplicito riferimento alle connotazioni agricole e al concetto di fecondità legate al dio. Le dionisie urbane, invece, erano intrinsecamente legate alle rappresentazioni drammaturgiche – proposte anche in occasione di un’altra festa dionisiaca ateniese, le Lenee. Le più grandi opere del teatro greco, perpetuate nella tradizione, sono state pensate per partecipare al celebre agone: ogni anno gareggiavano tre poeti, ciascuno dei quali presentava nell’arco di una giornata una tetralogia composta di tre tragedie e un dramma satiresco. Il quarto giorno di festa era poi dedicato alla messa in scena di tre commedie.

La funzione del teatro nelle polis greche era didattica. Il teatro aveva il compito di radunare il popolo ed educare i propri cittadini, di narrare la storia in atto, di delucidare e informare riguardo a fatti politici contemporanei. La drammaturgia tragica, introspettiva in particolar modo, imitava – fino a confondervisi – l’idea di un personale percorso catartico d’elaborazione delle più profonde e taciute emozioni, durante il quale gli spettatori potevano riconoscersi – e quindi assolversi, o condannarsi. Il viaggio nella conoscenza dell’essere umano e dell’ingerenza divina nelle questioni mortali aveva, come scopo ultimo, la crescita etico-morale. Fino in fondo alla verità, fino all’agnizione delle più nascoste inquietudini dell’animo. Fino al senso di liberazione.
Se la tragedia ripropone il mito a misura d’uomo, la commedia sovverte le regole del reale e gli altisonanti argomenti leggendari dei tragici. Se la tragedia mostra i limiti da non oltrepassare mai per restare umani, la commedia invita a superarsi, in modo assurdo e paradossale. Abbraccia le ambiguità di una morale imperfetta, purché si vinca e si scacci il famoso capro espiatorio – che porta via con sé sofferenza e malanni, ristabilendo una condizione di illusoria serenità. Entrambe le tipologie di rappresentazione propongono un momento di rottura col passato, la possibilità di scelta e un finale progetto di rinnovamento. Nel bene e nel male. Di fatto, è la morale del teatro.
Ma perché durante le Grandi Dionisie? Perché in connessione del culto di Dioniso, il dio dall’inebriante fascino per il dissoluto?

I culti e i simboli di Dionisio: le Grandi Dionisie

Dioniso resta, tuttora, una delle divinità di più difficile catalogazione, a cominciare dall’etimologia del nome: per alcuni, dall’unione del genitivo Διός con il termine greco νῦσος, quindi il ‘nysos di Zeus’, il “giovane figlio di Zeus”; per altri, di rimando al monte Nisa, dove il mito vuole che il dio fosse stato allevato. Di certo, secondo la visione cosmogonica di Esiodo nella Teogonia (vv. 940-942), Dioniso è figlio immortale di Zeus e della cadmeia Semele. Originariamente legato al’immagine della linfa vitale che alimenta le piante, il dio viene presto assimilato allo spirito della ζωή, essenza e principio di vita. Divinità ibrida e doppia, Dionisio incarna la coesistenza dell’elemento maschile e femminile, della natura divina e mortale, il soffio tragico e comico della vita e della morte, diventando emblema – sopratutto per il teatro novecentesco – di una spinta inconscia e irrefrenabile, del tutto istintiva e sensoriale. Immediatamente collegata all’enigma della duplicità e della contraddizione è la maschera, elemento tipico delle raffigurazioni e del culto di Dioniso, insieme alla presenza femminile durante le cerimonie a lui dedicate. Le Baccanti (o menadi), durante il rito, invocavano a ritmo furente la presenza del dio, rievocandone le gesta vestite di simboli specifici – alloro, tralci di vite e pampini, cinte di pelli di animali selvatici e con in mano il tirso. Gli uomini, invece, erano invece camuffati da satiri, figura mitologica per metà umana e, per la restante parte, caprone. Non a caso, Aristotele collega la nascita della tragedia al ditirambo, un canto corale in onore di Dioniso intonato da un corteo di satiri danzanti, in occasione di feste legate al culto del dio, fornendo così una plausibile soluzione etimologica del termine ‘tragedia’ – ossia “canto dei capri”, da trágos, “capro” e ōdē, “canto”.

Dunque, Dioniso come spinta e liberazione da inibizioni innaturali. Ma Dioniso anche come maschera contemplativa del duplice aspetto della vita: fertilità e rinnovo, decadenza e morte. Due facce di una stessa medaglia in atto sul palcoscenico del reale, così come durante i drammi di quel teatro finemente educativo e politicamente scorretto.
Per questo, tragedia e commedia si incontravano, scontrandosi in accesi agoni nei giorni delle Grande Dionisie, nei giorni del dio della ζωή.
Per rendere chiaro e noto il paradosso del quotidiano, che corre a perdifiato verso la fine, non a caso nel mese della primavera quando tutto ha il sapore della rinascita.

Pamela Valerio

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