L’Unione Europea sta valutando di includere la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera (in inglese carbon dioxide removal, o CDR) nella strategia per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Ma in cosa consiste la rimozione dell’anidride carbonica? E quali sono i rischi connessi a questo tipo di tecnologia?
Con la presentazione dell’European Green Deal avvenuta nel dicembre 2019, la Commissione Europea guidata da Ursula Von der Leyen ha posto degli obiettivi climatici molto ambiziosi. Tra questi spicca il 2030 Climate Target Plan, che ha lo scopo di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 55% rispetto ai valori del 1990, facendo affidamento anche sulle tecnologie di rimozione della CO2 dall’atmosfera. Secondo l’UE, il CDR potrebbe essere particolarmente importante per quei settori che non possono rinunciare all’utilizzo dei combustibili fossili, o che comunque non possono farlo nel breve termine.
Queste tecnologie di rimozione della CO2 sono conosciute anche come “emissioni negative”, perché grazie ad esse il “saldo” tra l’anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera e quella che viene rimossa va a vantaggio di quest’ultima. Esistono due tipologie principali di CDR: la prima è quella che migliora tutti gli elementi naturali già esistenti capaci di rimuovere la CO2 dall’atmosfera (ad esempio le foreste); la seconda è quella che utilizza dei processi chimici per catturare la CO2 e immagazzinarla in luoghi sicuri, come il sottosuolo.
Gli elementi, naturali o artificiali, in grado di assorbire e immagazzinare l’anidride carbonica vengono definiti carbon sinks o sink biosferici. Ciascun metodo di cattura è diverso per capacità di rimozione della CO2, per costi e per eventuali criticità. Inoltre ogni metodo ha un differente grado di sviluppo, con alcune tecnologie già operative e altre ancora in una fase sperimentale o addirittura completamente teorica.
I principali sink biosferici di origine naturale sono gli oceani e le piante o, più in generale, tutti quegli organismi che usano il processo di fotosintesi. In particolare il potere delle piante di catturare la CO2 può essere sostenuto attraverso operazioni di afforestazione (piantare nuovi alberi) o di riforestazione (piantare di nuovo alberi in aree che erano state precedentemente disboscate), mentre gli oceani assorbono naturalmente circa il 25% di tutta l’anidride carbonica prodotta dall’uomo.
Questi metodi naturali di rimozione di CO2 presentano però delle problematiche, come il fatto che la terra disponibile per piantare nuovi alberi sia relativamente limitata e che le foreste non siano esenti dal rischio di incendi, fattore che causerebbe notevoli emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
Anche per questi motivi ai processi naturali si affiancano una serie di metodi artificiali basati su tecnologie differenti ed è proprio su queste ultime che l’Unione Europea e le compagnie energetiche stanno concentrando la propria attenzione. Si possono distinguere almeno tre tecnologie, tutte indicate da acronimi: CCS, BECCS e DACCS. La base comune è il CCS – Carbon Capture and Storage: la tecnica prevede la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 prodotta sia dalle centrali elettriche che bruciano i combustibili fossili sia dagli impianti industriali, ad esempio le raffinerie. Una volta catturata, la CO2 viene stoccata in magazzini sotterranei che di solito sono giacimenti petroliferi in via di esaurimento o fondali marini.
Gli altri due acronimi, BECCS e DACCS, sono delle variazioni di questa tecnica di cattura e stoccaggio del diossido di carbonio: il DACCS (Direct air carbon capture and Storage) prevede la cattura della CO2 direttamente dall’atmosfera; il BECCS (Bio-energy with Carbon capture and storage) usa invece la biomassa (cioè un insieme di materiali organici combustibili) come fonte di energia da bruciare per poi catturare e stoccare le emissioni di CO2 così prodotte.
L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) include il CCS tra le tecniche da utilizzare al fine di limitare l’aumento della temperatura mondiale agli 1,5 gradi previsti dall’accordo di Parigi, ma il metodo solleva numerose perplessità sia riguardo la sua efficacia, sia riguardo i potenziali rischi.
Il rischio più concreto legato al CCS è la possibilità di fuoriuscite della CO2 dai siti di stoccaggio: questo scenario è pericoloso non solo perché invaliderebbe tutti i benefici della suddetta tecnica a livello ambientale, ma anche perché potrebbe mettere a rischio la salute umana.
Il secondo punto a sfavore del CCS è che questo metodo non rappresenta un vero cambio di strategia a livello energetico, che dovrebbe concentrare la ricerca sull’utilizzo di fonti rinnovabili: al contrario, come denunciano alcuni gruppi ambientalisti, il CCS sembra più una soluzione studiata per continuare a produrre energia attraverso i combustibili fossili con la promessa di riassorbire le emissioni così prodotte. Non è un caso, infatti, che proprio i colossi petroliferi come ENI stiano puntando molto su questo tipo di soluzione: la loro strategia è mostrare la CO2 come una risorsa anziché come un problema. E non è un caso che questi colossi siano accusati di voler usare il CCS per mettere le mani sui fondi erogati dall’Unione Europea per la lotta alla crisi climatica, sottraendoli a soluzioni ben più sostenibili.
Rimane infine il dubbio più importante: il CCS è veramente efficace nel limitare le emissioni di anidride carbonica? Oltre a essere una tecnologia ancora sperimentale e particolarmente costosa, non esente da rischi, tale tecnica ha bisogno di utilizzare grandi quantità di energia al fine di catturare, trasportare e stoccare la CO2 rimossa dall’atmosfera: il paradosso è che, in assenza di uno sviluppo significativo delle fonti rinnovabili, questa tecnologia per poter funzionare immetterebbe nell’atmosfera più CO2 di quella che riuscirebbe ad eliminare.
Se quindi il CCS può essere una tecnologia promettente soprattutto per quei settori produttivi più dipendenti dai combustibili fossili, le istituzioni e i politici europei dovrebbero valutare e ridimensionare il suo ruolo per il raggiungimento degli obiettivi climatici, evitando di considerarla come la panacea per l’emergenza climatica che affligge il nostro Pianeta.
Valeriano Musiu