Di figli che scrivono alle proprie madri la letteratura è piena: ai versi si affidano speranze, preghiere, ricordi che possano accorciare le distanze, spesso incolmabili perché non più terrene, tra il proprio io bambino e il grembo che l’ha messo al mondo. A inseguire l’abbraccio materno, oltre il tempo e lo spazio, vi sono grandi poeti quali Ungaretti, Montale, Saba e, soprattutto, Giorgio Caproni, che fa della sua Annina la protagonista indiscussa dei “Versi livornesi”, la sezione certamente più bella de Il seme del piangere.
Edita nel 1959 dalla Garzanti, la raccolta si presenta come un viaggio a ritroso nell’universo affettivo del poeta che, in seguito all’irrimediabile perdita della madre, sente cocente il bisogno di tornare alle origini e, addirittura, a un passato in cui egli ancora non era, dominato dalla grazia e dalla purezza.
Annina è giovane, bella, dolcemente sensuale e nulla ha a che fare con quelle madri della tradizione letteraria novecentesca relegate nell’irraggiungibile etere dell’eternità:
Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d’oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.
Una scia tanto lunga, capace di lasciare tracce perfino nella fantasia del figlio allora non ancora concepito e che, da vecchio, lascia che il suo dolore sia cullato dalle immagini di una città – Livorno – risvegliata dal passo miracoloso della sua mamma:
Ma come s’illuminava
la strada dove lei passava!
Tutto Cors’Amedeo,
sentendola, si destava.
[…] Andava in alba e in trina
pari a un’operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettio la contrada.
Con un linguaggio estremamente semplice, che giunge dritto al cuore, Caproni batte sulla tastiera a suon di rumori lontani, permeati di melodie di chiara provenienza stilnovista: Annina è una Beatrice moderna, un’operaia volenterosa che infonde salute e voglia di lavorare nell’animo di chiunque la incroci, che rischiara una Livorno già di per sé, con le sue piazze tanto larghe accarezzate dal respiro del mare, fresca e ariosa. L’incedere leggero della donna e le strade della città, rima dopo rima, finiscono così per sovrapporsi e per scambiarsi energie, profumi, colori e una vitalità che soltanto la guerra potrà oscurare.
Il seme del piangere si pone allora come un omaggio di Caproni ai tempi felici, quelli che non conoscevano le ferite dei bombardamenti, il vuoto dell’assenza, ma solo la bellezza delle sue due madri: Annina che l’aveva partorito e Livorno che l’aveva accolto tra le sue mura e le sue barche.
Alla poesia, che dovrà badare a essere fine e popolare, spetterà l’arduo compito di preservare l’una e l’altra da un epilogo inesorabile, da una meta predestinata, e di custodirle in un cerchio che mai del tutto si chiude, che continua a ritornare a quella sorta di età dell’oro che fu la gioventù materna.
Alla sua anima, invece, Caproni dà una bicicletta per attraversare i vicoli, scorgere i portoni e trovare quello che Annina, pronta a lavorare, varcherà alle prime luci del mattino:
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisternone.
[…] Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accòstati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Quel che dovrà sussurrare alla madre sarà un tormento, il rimorso della crescita, della vita che sancisce distacchi inevitabili: purtroppo, si diventa grandi, ci si allontana dai genitori, si continua a esistere anche quando questi non vi sono più.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mòrmolale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
È questa l’ultima preghiera che Caproni, stanco e anziano, rivolge a sé stesso: agguantare il tempo perduto, fissare nella memoria la figura mitica di sua madre, farne rappresentazione della pienezza della vita; godere da fidanzato del rossore delle sue gote.
I Versi livornesi de Il seme del piangere danno così voce, con parole limpide e chiare, a un sogno, il sogno, assurdo e dolcissimo, di annullare il peso degli anni e trascorrere accanto ad Annina un’infinita era di gioia e giovinezza.
Anna Gilda Scafaro