“Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti (Mondadori), candidato al premio Strega 2021, mette subito le carte in tavola assicurandoci che “i fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro”. Ed è forse questa forma di assicurazione il motivo per cui lo stile di Ciabatti risulta da subito così prepotente: lettore, stai leggendo uno spaccato di vita vera, mi ti offro completamente. Questa è la mia vita, la mia storia, sono i miei traumi: sono una scrittrice famosa e apprezzata, ma anche una madre cinquantenne con un rapporto difficile con la figlia e con gli uomini, che ritrova due ex compagne dai tempi del liceo (Federica e la sorella Livia, per sempre bloccata in un ritardo mentale a seguito di un tentativo di suicidio) e ti racconterà ciò che il tempo ha fatto a noi donne. Disprezzami o apprezzami ma riconosci la mia onestà da narratrice.
Siamo insomma, con “Sembrava bellezza”, dalle parti di quella autofiction che concede al lettore una presunta onestà dell’autore che corre il rischio di confondersi con il Vero, con la narrazione dei Fatti. Però la letteratura non è il campo da gioco di alcuna Verità con la V maiuscola: a voler essere pignoli quello è il giornalismo. Dare credito letterario a qualcuno solo perché (pare) ci offra il proprio vissuto non ha a che fare con una qualità letteraria intrinseca rispetto a ciò che leggeremo: ci piacciono Knausgard e Carrère perché i loro romanzi hanno una grande struttura interna, non adagiandosi solo sulla contemplazione del proprio ombelico ma affacciandosi ad orizzonti più ampi: poco conta che poi ciò che scrivono non collimi con ciò che gli è effettivamente accaduto.
Ad onor del vero in “Sembrava bellezza” Ciabatti si mette in gioco. Va riconosciuto che in un comparto letterario pieno zeppo di storie che sembrano concepite per una fiction Rai sui buoni sentimenti, con trame edificanti e patine dorate di idealismi di serie z che vengono via al minimo grattarle con l’unghia della realtà, la sua è la partenza da un dato biografico a dir poco problematico: moglie che ha tradito il marito, che fa saltare i ponti con una famiglia disprezzata, che non nasconde le proprie idiosincrasie verso tutto e tutti, che non infila sotto il tappeto un privilegio coi suoi bias e pregiudizi da borghese. Di tutto questo la narratrice non ha intenzione di pentirsi arrivando a momenti di esaltazione narcisista o di fiera rivendicazione (“Malgrado tutti voi m’immaginiate in lacrime, io non piango. Non piango, né piangerò” – e la grande tragedia qui è semplicemente il fatto che la figlia stia partecipando a un programma preserale con Gerry Scotti).
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Ma questa sorta di autobiografia è anche letteraria, e lo è perché sfacciatamente manipolatoria e manipolata com’è giusto che sia: quando serve per dare uno scossone alla storia, ovvero quando la trama rischia di appiattirsi definitivamente, la narratrice non si fa scrupolo di modificare i dati usati fino a quel momento ricalibrando situazioni pregresse, avvenimenti e personaggi (“Per amore di letteratura dunque, per rispetto di verosimiglianza, non da ultimo per pigrizia […] devo correggere questo racconto, e confessare”).
Sfida il lettore in continuazione, lo provoca e sembra maltrattarlo (“Se solo mi vedeste, lettori, se mi vedeste ora in pigiama di pile, continuereste ad amarmi?” “Se solo voi detrattori foste in grado di leggere le metafore, sforzatevi.” “In caso contrario, non giudicatemi, lettori”).
Ricerca la sua complicità, e nell’esercizio masochistico della confessione arriva a elemosinare compassione (“Abbiate pietà per questa donna presentatasi come la più grande scrittrice vivente, la provinciale disadattata che ce la fa, s’impegna e ce la fa, applausi”), ma quando c’è bisogno tira fuori gli artigli di un orgoglio esibito (“Cattiva sì, non codarda. Una che dice le cose in faccia, che non ha paura della verità – io, come mi rappresento a me stessa e al mondo”).
Non mancano in “Sembrava bellezza” dei raccordi arbitrari con la letteratura dei classici o quella più contemporanea: l’incipit in cui una violenza sessuale viene tramandata da donna a donna (“Ai parenti che protesteranno – mai avvenuto un simile episodio nella nostra famiglia, questa è diffamazione – risponderò: avete ragione, era la nonna materna, una zia, la tata”) ricorda in parte quello di ZeroZeroZero di Roberto Saviano sulla cocaina (“La coca la sta usando chi è seduto accanto a te ora in treno e l’ha presa per svegliarsi stamattina o l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché vuole fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale. Fa uso di coca chi ti è più vicino. Se non è tuo padre o tua madre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Se non è tuo figlio, è il tuo capoufficio”.)
La frase “Se i ruoli non fossero ambiguamente fluttuanti, avremmo famiglie felici” è un’ennesima rilettura dell’incipit di Anna Karenina di Tostoj: “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”.
Innumerevoli i riferimenti a “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides, sia nelle citazioni (“Vergini suicide, dove per talune è inesatto vergini, per altre suicide“) sia nei personaggi (Livia sembra ricalcata su Lux Lisbon).
Non si può accusare Ciabatti di essere una scrittrice senza stile: forse il problema è che, a parte dei segmenti particolarmente riusciti – esercizi di stile che sono comunque paradigmatici di un talento che c’è, fa capolino e poi si ritira –, ciò che in “Sembrava bellezza” manca è il romanzo, una storia, un intento chiaro che non siano le lagne di una narratrice mai uscita dai Parioli – mentalmente, culturalmente, letterariamente.
Ci sono dei temi ricorrenti: l’adolescenza tradita, l’inadeguatezza di una donna che ha paura della vecchiaia quando soffre ancora dei postumi di un rancore eterno per una vita che non è stata come voleva, i rapporti con l’altro sesso (declinati spesso con figure animalesche, brutali, sessualmente esplicite), tre donne – stile Altman – che fanno i conti con le loro famiglie; c’è soprattutto l’idea della sparizione delle ragazze esemplificata nel leit motiv di Emanuela Orlandi, tirata in ballo come emblema di una vittima e di una donna che è potenzialmente tutte le donne e tutte le vittime in slanci di un lirismo fuori luogo, che denotano tutti i limiti da scrittrice di Ciabatti quando il tono della ferocia prova a smussarsi (“Vi salverò. Io vi salverò, bambine bionde, teste di bambole. Vi porterò al sicuro nella grotta buia della mia immaginazione, dove nessuno vi toccherà, e se lo farà, se abuserà di voi, sarà a fin di bene, per rendervi potagoniste. Non piangere, Emanuela”).
In “Sembrava bellezza” assistiamo quindi al dispiegamento di materiali diversi (interviste giornalistiche non pubblicate, reportage sull’anoressia); a confessioni impietose piene di rancore su parentame vario, su un’umanità privilegiata (all’interno di un quadrato magico del privilegio: la narratrice si strugge per un’adolescenza segnata dal sentirsi più brutta e più povera rispetto alle compagne più belle e più facoltose, pur non essendo stata povera né brutta); le trame continuamente riciclate – e smentite dalla narratrice inaffidabile stessa – in qualche modo lasciano sbigottiti per le prime dieci, venti, trenta pagine. Poi gli effetti speciali annoiano, il meccanismo romanzesco tira troppo la corda e resta la sensazione che Teresa Ciabatti stia volando così alto da non riuscire a comprendere a fondo di cosa voglia parlare, ma facendo in modo che nel marasma da grand guignol confessorio ciascun lettore possa prendere ciò che gli pare. È il guscio vuoto di uno stile sincopato, violento quasi, ma che non basta alla struttura di un romanzo che forse non c’è mai stato: motivo per cui a circa metà del libro tutte le premesse continuano a stare lì, inerti e come morte, e non troveranno nessuno sviluppo. Non stupirà notare come anche il finale, di fatto, non ci sia: nella continua e frustrata rivendicazione contro tutto e tutti, ciò che non viene mai messo in discussione è il senso di questo libro e della letteratura come corpo contundente – che forse necessita di una voce polifonica in cui l’Altro sia presente, ogni tanto. Come scriveva Gòmez Dàvila “L’autenticità raramente si confonde con la sincerità spontanea. La spontaneità suol essere eco di voci altrui”. Bastasse la rabbia della prima persona a rendere entusiasmante un romanzo avremmo più capolavori di quanti riusciremmo a leggerne in una vita intera.
Nicola Laurenza