Al Festiva del Giallo Città di Napoli, tra i numerosi panel, abbiamo avuto il piacere di ascoltare – e di incontrare – l’autore e anche traduttore per l’Italia del Maestro del brivido Stephen King: Luca Briasco.
Luca Briasco, autore e traduttore
Luca Briasco, editor di narrativa straniera per Minimum fax, traduttore e scrittore, si è laureato con una tesi su “Moby Dick“. Nel 1996 ha conseguito il dottorato di ricerca discutendo una tesi sul rapporto tra il romanzo americano postmoderno e la filosofia della letteratura degli ultimi due decenni. È stato direttore editoriale di Fanucci ed editor di narrativa e saggistica straniere per Einaudi Stile libero dal 2006 al 2016. Con Mattia Carratello ha ideato e diretto la collana “AvantPop”, nata con l’intento di divulgare le ultime tendenze della narrativa americana; ha curato nel 2011 il volume “La letteratura americana dal 1900 a oggi. Dizionario per autori” (Einaudi). Collabora con “Alias”, supplemento culturale del “Manifesto”, e dal 2016 scrive sul “Venerdì” di “Repubblica”. Ha tradotto opere di James Ballard, Richard Brautigan, Paul Harding, Joe R. Lansdale, Richard Price, Edward St. Aubyn, Graham Swift, Jim Thompson, Viet Thanh Nguyen, John Updike e Hanya Yanagihara. Nel 2016 ha pubblicato con Minimum fax “Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea”.
Una carriera più che ventennale, dove Luca Briasco ha fatto conoscere all’Italia autori come Don Winslow, Joe Lansdale, Jo Nesbø, e dal 2018 è il traduttore italiano di Stephen King.
Ed è proprio a Stephen King che dedica il suo ultimo lavoro: Il re di tutti. Un ritratto di Stephen King, edito da Salani.
La sinossi: Per molti è il più grande scrittore degli ultimi decenni. Per altri le sue storie horror sono robaccia. Una volta il diretto interessato si è autodefinito ‘l’equivalente letterario di un Big Mac con le patatine’ per rivendicare il suo legame con la cultura popolare. Oggi, con più di settanta romanzi pubblicati, quattrocento milioni di copie vendute e una serie impressionante di adattamenti delle sue opere per il cinema e la TV, Stephen King è celebrato in tutto il mondo come il ‘Re del Brivido’. Attraverso i suoi profili social lancia stoccate contro i potenti del pianeta, da Donald Trump a Elon Musk, o consiglia film e libri a un fandom che lo osanna. La sua villa a Bangor nel Maine, con la famosa cancellata costellata di ragnatele e pipistrelli, è ormai una meta di pellegrinaggio. Ma per gran parte della sua vita, King si è rifugiato in un’esistenza normale, lontana dai riflettori. «Ha insistito nel suo sogno di diventare uno scrittore grazie alle due donne della sua vita; ha imparato a fare i conti con le sue paure e a trasfigurarle attraverso l’arte del racconto; ha scoperto le contraddizioni di un Paese attraversato dal terrore, dalla rabbia, dall’odio». Luca Briasco, lettore famelico di King, traduttore dei suoi libri più recenti, profondo conoscitore della letteratura americana, ci conduce dentro l’arte di un genio indagando i temi ricorrenti di un corpus narrativo sconfinato eppure straordinariamente coerente. Il risultato è un ritratto unico nel panorama italiano, un’occasione per scoprire (o riscoprire) uno scrittore che da oltre quarant’anni alimenta i nostri incubi.
Parlando con l’autore abbiamo scoperto molte cose su King, sul lavoro di traduzione, e ovviamente su Luca Briasco.
Innanzitutto la ringrazio. La prima domanda è, chiaramente, sul suo lavoro di traduzione: come si approccia alla traduzione e com’è tradurre un mostro sacro come Stephen King?
«L’approccio alla traduzione richiede, almeno per come lavoro io, una lunghissima fase immersiva: ho bisogno di leggere, rileggere, lavorare, fare ricerche e poi, una volta fatto tutto questo lavoro preparatorio, immergermi nella traduzione. Tradurre freneticamente, a un ritmo forsennato, dove riesco a tradurre 15 – 20 cartelle al giorno, perché a quel punto sono talmente dentro che per me diventa importante stare dietro al flusso. Quando devi vedertela con King il problema non è tanto il fatto del timore reverenziale nei confronti dei testi, è il timore reverenziale sul fatto che ho preso in mano questo autore nel 2018, dopo che il suo primo romanzo era stato tradotto – anche in Italia – nel ’75/76, un autore che aveva 40 anni di vita in Italia, con tutta una serie di traduttori che mi hanno preceduto, alcuni dei quali amatissimi dai lettori di King, e ho quindi percepito la responsabilità di cui, secondo me, un traduttore deve farsi carico quando c’è un passaggio di testimone: non credo che un traduttore possa prendere un autore fingendo che questo autore sia vergine per un lettore italiano, c’è bisogno di continuità con quella che è la lingua italiana di King, senza scimmiottarla.»
In “Americana” ha proposto “It” come il grande romanzo americano. Ci può spiegare perché?
«Io ho percepito It come il grande romanzo americano, It che è stato definito dallo stesso King l’horror definitivo, perché l’horror diventa la grande metafora di un paese. Pensiamo ai grandi autori cinematografici, pensiamo a Romero, Carpenter, Cronenberg, i grandi registi horror che negli anni ’70 e ’80 rivoluzionano l’horror a livello cinematografico: quando una persona guarda “La notte dei morti viventi” di Romero, o “Zombi”, trova la più grande critica al consumismo, all’ipercapitalismo americano che sia mai stata forse prodotta dal cinema. King in It fa un’operazione storica: It, ricordiamolo, non è soltanto la storia di un gruppo di ragazzini che combattono un mostro che torneranno a combattere poi da adulti, ma è anche la storia di una città, di una comunità, che fin dalle origini reca il male al proprio interno. King racconta la storia americana come una storia in cui il male è un’entità sempre presente, che riemerge periodicamente sfruttando la predisposizione al male delle singole persone. Il racconto del male come qualcosa di annidato nel cuore dell’America fin dalla sua fondazione è lo stesso racconto de “La lettera scarlatta” di Hawthorne, è lo stesso racconto di “Moby Dick” di Melville, di Huckleberry Finn di Mark Twain. Io trovo in It la continuità con la tradizione americana, e anche per le dimensioni e per la forza mitopoietica lo trovo il romanzo perfetto per questa identificazione nel grande romanzo americano, che in verità non significa niente. Io ho giocato con la mole del romanzo, ma personalmente se dovessi dire qual è il grande romanzo americano direi probabilmente “Il Grande Gatsby” di Fitzgerald, un romanzo breve che contiene però dentro tantissime cose sull’America.»
Ha tradotto “Una vita come tante”. Chiaramente ci sono differenze tra Yanagihara e King. Ha però ritrovato dei topoi in comune tra “Una vita come tante” e i romanzi di King?
«Qual è il topos che li accomuna? C’è una frase che dice King a un certo punto durante un’intervista, che ho intercettato e che ho usato per alcune riflessioni per scrivere poi il libro che sta per uscire (Il re di tutti): ci sono degli autori, del ‘900 e non solo, che parlano di personaggi straordinari in situazioni ordinarie. Io invece (King) mi diverto a parlare di uomini ordinari in situazioni straordinarie, cioè quello che io faccio è mettere persone assolutamente normali di fronte a situazioni che forzano la loro normalità per vedere cosa succede. Ora, in qualche maniera, “Una vita come tante” è la storia di un ragazzino che di per sé sarebbe un ragazzino come tanti ma che non può esserlo perché la vita non glielo permette. Purtroppo poi le circostanze straordinarie di Yanagihara portano a quello a cui portano, mentre King invece è fondamentalmente un ottimista: questa è una cosa che non si dice spesso, che King è un ottimista, ma buona parte dei suoi romanzi finisce bene, e anche quelli che finiscono male – come per esempio “Shining” dove il cattivo viene punito e il figlio e la moglie sopravvivono – alla fine è come se avessero il lieto fine. “Una vita come tante” sappiamo come finisce, e Yanagihara è fatalista, è pessimista; King non lo è, è un autore convinto che l’individuo ha delle risorse, e che queste risorse gli possono permettere anche di sopravvivere, di salvarsi. In Yanagihara c’è tantissimo amore e pochissima salvezza.»
Ultima domanda: sognava di diventare il traduttore italiano di Stephen King?
«In realtà io l’unico autore americano che in qualche modo speravo di tradurre – e che ho tradotto – è Joe Lansdale. Ma per ragioni personali: con Joe c’è una grandissima amicizia e un grandissimo affetto quindi, quando a un certo punto la persona che in quel momento traduceva Joe per una serie di problemi personali ha dovuto smettere di tradurlo, Joe mi ha chiesto di tradurre i suoi libri e lì ho realizzato un sogno perché considero Lansdale uno scrittore bravissimo. Io in genere preferisco scoprire traducendo, alla fine le esperienze di traduzione più belle sono state le scoperte: Yanagihara l’ho scoperta traducendola, Edwars St Aubyn, “Il simpatizzante” di Viet Thanh Nguyen l’ho conosciuto traducendolo. King è stato una specie di strano scherzo di Carnevale: un giorno in cui a Roma nevicava, cosa rarissima, mi è arrivata questa telefonata dalla editor italiana di King e mi ha chiesto “ti andrebbe di tradurlo?”. Io non ci avevo mai pensato, come se mi avessero chiesto di tradurre Philip Roth: lo avrei fatto al meglio ma non era un sogno, a me piace scoprire autori nuovi. Se c’è però, ecco, una cosa che mi è dispiaciuta è non aver tradotto Don Winslow: tendo a non tradurre gli autori che porto in Italia, l’ho “scoperto” io e portato in Einaudi. Mi sarebbe piaciuto tradurre “Il potere del cane” e non l’ho fatto per questi motivi.»
Valentina Cimino