Le immagini di apertura di “Grano” sono il contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare da un libro che racconta una terribile guerra in corso, a noi vicinissima sotto tutti i punti di vista e che dunque credevamo di conoscere fin troppo bene; lo sono al punto da sembrare irreali, da farci credere di aver sbagliato libro. Di fatto l’incipit ha qualcosa di pacifico e sereno: “Per quel poco che riesco a vedere, il paesaggio sembra davvero incantevole”. Si tratta dell’oro dell’Ucraina: le distese di grano e cereali che Giammarco Sicuro, inviato speciale della Rai, osserva dal treno che procede da Odessa a Dnipro. Il paesaggio è lì: le splendide coltivazioni sono già pronte per il raccolto ma nei dintorni non c’è quasi nessuno, tutti sembrano svaniti, e di tanto in tanto alle “coltivazioni ordinate” si frappone la macchia dei campi di grano bruciati. Sono immagini stranianti sia per chi le sta vivendo sia per chi legge. Nel libro “Viaggio in una guerra” Christopher Isherwood e W.H.Auden scrivono che quando un osservatore neutrale si approccia per la prima volta a un paese colpito dalla guerra si ritrova in una situazione “fatalmente simile a un sogno, irreale”. Il viaggio di Giammarco Sicuro nel primo anno di guerra in Ucraina ha questa stessa connotazione allucinatoria che da alla guerra, a ogni guerra, un aspetto da sogno. E da incubo.

Dopo averci accompagnato in giro per tre continenti ne “L’anno dell’alpaca” raccontando dello scoppio della pandemia e soprattutto delle persone che hanno vissuto il Covid, Giammarco Sicuro conGrano. Storie e persone da una guerra vicina (Gemma Edizioni) torna quindi a dar voce a donne, uomini e bambini da una parte della barricata all’altra, dalla Russia all’Ucraina, da Mosca a Mykolaïv.
Voci di ogni tipo: dai dissidenti nella Russia putiniana che mostra il pugno di ferro, instillando un clima di paranoia crescente verso gli stessi giornalisti e censurando anche l’utilizzo di determinate parole pena la ritorsione (l’uso del fumoso “operazione speciale” al posto del ben più concreto “guerra”), arrestando vecchiette. Ma anche le voci di chi cerca di sopravvivere nelle città e nei villaggi ucraini devastati, dove torna quell’irrealtà di cui si scriveva prima, una irrealtà comunque magnetica da cui diventa difficile distogliere lo sguardo. Perché c’è qualcosa di impossibile da spiegarsi, anche per lo stesso Sicuro, nell’osservare uno spazzino a Odessa che continua a lavorare sotto una pioggia di missili: “Cosa spinge un essere umano a continuare col suo dovere, anche se questo dovere, in quel preciso istante, potrebbe pure costargli la vita? La risposta va ben oltre la mia capacità di analisi, ma la scena mi tiene comunque ipnotizzato”. Armato solo di coraggio, curiosità e di un portafortuna (la matrioska di nome Matrina, amica e confidente non meno viva di persone in carne e ossa), in “Grano” Sicuro dà a queste immagini e queste voci una carica ipnotica, e lo fa con l’umiltà del testimone che vuole (anzi, deve) raccontare ciò che ha visto, ciò che sta vivendo. Immagini che diventano a tratti di una potenza quasi arcaica: come quando ci si ritrova ad osservare una madre e le sue bambine che vivono sottoterra e lì hanno intenzione di restare; tre personaggi vivi, reali, non inventati, ma che se fossero stati narrati in una fiaba non avremmo trovato certo fuori posto.

Copertina di “Grano”

Chi ha letto “L’anno dell’alpaca” ritroverà in “Grano” anche persone di cui avevamo già fatto conoscenza; le ritroverà simili, a volte un po’ cambiate: in fondo è la ripresa di un discorso – e una voce narrante – che era stato interrotto solo momentaneamente. Senza nessuna pretesa di voler spiegare le ragioni geopolitiche di una guerra, “Grano” però si propone la missione di mostrare al lettore chi in quella guerra ci vive, come ne “L’anno dell’alpaca” si leggeva di persone comuni alle prese con il Covid dal Brasile alla Corea del Sud. E se non mancano alcuni capitoli dove è l’azione a cardiopalma del momento a monopolizzare il racconto (la fuga da villaggi che stanno per essere bombardati, la corsa folle in furgoncini di fortuna dalle esplosioni sempre più vicine, sparatorie e proiettili vaganti da cui difendersi), questi sono solo gli inconvenienti di chi deve spingersi sempre un po’ più in là dell’ennesimo check point per vedere – e raccontare – le vite degli altri, non un brivido facile a uso e consumo di chi vuole emozioni forti. Naturalmente nell’anno raccontato in “Grano” (dal 2022 fino a pochi mesi fa) non c’è solo l’uso di immagini allucinanti ma anche la sostanza di chi da anni fa il mestiere di inviato speciale, sapendo spiegare quindi i diversi metodi lavorativi dei colleghi a seconda delle testate e i differenti approcci dei mass media verso l’immaginario bellico, così come gli agganci con i contatti locali e i producer. Il mosaico di esseri umani è dunque vario: c’è speranza, meschinità, dolcezza, cinismo, mistero. Ed è forse proprio il mistero e la capacità di potersi sorprendere ancora, questa lotta contro le apparenze anche in un contesto dove saper scegliere di chi fidarsi sul momento è questione di vita o di morte, a regalare più speranza, in un libro dove, per forza di cose, la speranza è un lumicino e la guerra è colta nel suo aspetto più miserabile.

Sul finire di “Grano”, Sicuro cita Gabriel Garcìa Marquez per cui “è più facile iniziare una guerra che finirla”. È una constatazione lapidaria, che ha la stessa immediatezza delle parole del tenente Rosenthal ne “La grande illusione” di Jean Renoir: “Le frontiere non si vedono mica. Sono un’invenzione dell’uomo, la natura se ne fotte”. Anna, Ludmilla, Mariano, Laura, Ivan, Igor, Maria, Boris e i suoi ragazzi, Cristina, Alina, Oleg, persino Matrina, sarebbero tutti d’accordo. A fine lettura possiamo ancora sentire le loro voci – che pure abbiamo solo letto e mai ascoltato – dire che sì, la natura se ne fotte, nonostante tutto. Ma che iniziare una guerra è terribilmente più facile che finirla.

Nicola Laurenza

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