Le cooperative sociali hanno ormai un ruolo rilevante sia nel lavoro, sia nel più ampio quadro dei settori socio-educativo o socio-sanitario. Nel pensiero comune, sono un porto sicuro in cui elaborare, attraverso un lavoro di équipe, una serie di programmi personalizzati che permettano soprattutto l’inclusione lavorativa di persone svantaggiate.
Si affacciano nella realtà sociale con la legge 381/1991 che prevede gli obblighi, la struttura interna e le funzioni. La prima distinzione è tra le cooperative sociali di tipo A, che coprono i settori socio-sanitario ed educativo, e di tipo B, che comprendono attività finalizzate al reinserimento lavorativo di persone svantaggiate. In Italia, il più diffuso è il tipo A che lascia meno dubbi nel raggiungimento dei propri obiettivi. Il modello B, invece, sembra avere una buona normativa di supporto, che tuttavia non trova completa applicazione: l’effettivo inserimento lavorativo, quindi, è più difficoltoso. Le cooperative di tipo B dovrebbero portare a un superamento della logica assistenzialistica, individuare e potenziare le risorse della persona svantaggiata e, così, permetterle di intraprendere un percorso di autonomia economica, ma anche sociale e relazionale.
Il contesto lavorativo diventa necessariamente formativo, per raggiungere una serie di finalità: rafforzamento dell’autostima, socializzazione, autoefficacia e autodeterminazione che, se mancano, fanno sì che una persona svantaggiata sviluppi forme di disagio nonché di disadattamento. Se, in linea teorica, il percorso prospettato con una cooperativa sociale di tipo B è utile e necessario, in una visione di reinserimento e collegamento con la società, spesso questi percorsi possono nascondere il fenomeno del caporalato.
Lavoro in nero, lavoratori irregolari ma anche sottopagati. Risulta evidente che il seguente ingranaggio crea le migliori condizioni affinché vi siano situazioni di sfruttamento ai limiti della schiavitù, di persone che delle volte nemmeno sono consapevoli oltre che dei propri diritti della destinazione a cui giungeranno. Le persone svantaggiate sono innanzitutto persone, con un proprio vissuto, con disabilità, invalidità fisiche, spesso anche psichiche, la loro unica volontà spesso si esaurisce nel rapporto di fiducia, nell’affidarsi ad un servizio composto anche da professionisti che dovrebbero avere cura del presente ma anche del futuro di queste persone.
Parlare di prospettive, di reinserimento e recupero, significa non soltanto creare le condizioni affinché queste persone producano come in una perfetta ma imperfetta catena di montaggio come molti ritengono si debba fare, piuttosto significa predisporre un percorso formativo che li renda autonomi, auto-efficaci, consapevoli, in un contesto lavorativo collaborativo, attento, empatico, ma pur sempre formativo. C’è la sensazione che le cooperative sociali diventino dei moderni luoghi istituzionalizzanti, capaci di zittirne le volontà, un luogo in cui internare formalmente delle persone progettando loro illusioni in cui credere, investire.
In Italia non sono mancate leggi attente al sociale: la legge 180 del ’78 in materia di salute mentale, la 104 del ’92, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali, la 328/2000. Un supporto normativo forte a cui, tuttavia, non è mai realmente seguita una maturità culturale collettiva, se non in maniera polarizzata, ovvero concentrata in un gruppo di pochi che oggi è rappresentata soprattutto dalla vecchia retroguardia. Una maturità culturale ancora troppo acerba. Formalmente una presa in carico da parte del professionista del sociale dovrebbe tradursi in un accompagnamento e in un costante monitoraggio della situazione lavorativa, soprattutto se ci si trova dinanzi a un reinserimento lavorativo.
Il limite di questi percorsi è che non hanno un’effettiva visione del futuro. Come se i limiti considerati, lasciati emergere restino tali, destinati a cronicizzarsi nella loro stabilità. In questo modo si offre a persone svantaggiate una realtà non solo più povera, ma distante dal reale tessuto sociale, ovvero, non avviene quella possibilità trascritta in un qualsiasi progetto personalizzato; permane, nonostante le ore d’aria, uno scollamento dalla società e dunque un costante disadattamento. Zitti e buoni, premiati nella produzione, nella sottile competizione, resi illusi nelle loro false credenze di poter tornare a una vita “normale”, di poter recuperare i rapporti con i propri figli, con le relazioni di tutti i giorni.
L’alternativa alle loro difficoltà e l’inclusione sociale non dev’essere impastata esclusivamente di produzione e di obiettivi non praticabili e se praticabili solo parzialmente. Il reinserimento lavorativo dev’essere una parte del recupero, ma lo stesso non può essere intrapreso come un percorso solitario rispetto al progetto complessivo, rispetto anche ai sentimenti e alle emozioni che queste persone vivono. Non bisogna perdere di vista il motivo che ha portato la società a individuare una struttura come la cooperativa sociale, le sue funzioni, gli obiettivi da perseguire. Non è la persona svantaggiata a essere al servizio della cooperativa, ma è quest’ultima al servizio della prima.
La cooperativa sociale non può essere assoggettata a dinamiche di mercato, a logiche neoliberiste, verrebbe snaturata nel suo senso e quindi inevitabilmente nel suo scopo non ultimo, ma principale. Sarebbe troppo semplice guardare a una realtà del genere e voltarsi nel puro conformismo sociale incamminandosi dalla parte opposta rispetto alla verità che è luce, alimentando un sistema facendone anche parte senza mai interrogare o interrogarsi su come funzionano questi processi di recupero e se funzionano o se invece allontanano le persone dal più puro e reale tessuto sociale.
Il reinserimento lavorativo dev’essere un’opportunità mirata, finalizzata al recupero delle capacità professionali e relazionali, con ritmi e impegni che siano sostenibili e, soprattutto, compatibili con il destinatario. Spesso la fascia di persone svantaggiate necessita di riscoprire o rafforzare le proprie risorse e capacità, ma nel momento in cui la cooperativa sociale pone al centro della vita altrui i propri interessi condanna all’oblìo persone che già versano in condizioni di marginalità.
Bruna Di Dio
Complimenti per il bellissimo articolo scritto, finalmente un po’ di verità su queste realtà così delicate. Ci vuole competenza e professionalità per poter lavorare con queste persone.