Lo scorso venerdì 3 marzo, Fridays For Future ha nuovamente riempito le piazze in occasione del Climate Strike, lo sciopero mondiale per il clima. Da qualche anno, in parallelo con la crescita – anche anagrafica – dei membri più coinvolti del movimento e alla collaborazione con realtà impegnate nel sociale, alle tradizionali rivendicazioni ambientaliste se ne sono aggiunte altre. La narrazione della stessa fondatrice di Fridays For Future, Greta Thunberg, è andata via via modificandosi fino a oggettivarsi nell’idea-slogan di giustizia climatica. «La crisi climatica», ha detto Thunberg durante l’evento internazionale Youth4Climate del 2021, «è sintomo di una crisi di più ampio respiro, la crisi sociale della ineguaglianza, che viene dal colonialismo. Una crisi che nasce dall’idea che alcune persone valgono più di altre». Solo un anno prima, uno studio di Oxfam e dell’Istituto per l’Ambiente di Stoccolma aveva evidenziato come le emissioni di gas climalteranti del 10% più ricco fossero pari a quelle di tutto il resto del mondo, e addirittura come l’1% emettesse il doppio del 50% più povero.
Quest’anno, in Italia, si è tenuta la “settimana ecotransfemminista”, dal 3 all’8 marzo, che è stata il frutto del dialogo tra Fridays For Future Italia e il movimento transfemminista Non Una di Meno. Iniziata con il Climate Strike e conclusasi con la manifestazione in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne, la settimana ha evidenziato il collegamento fra crisi eco-climatica e condizioni delle donne, delle persone trans, queer e non binarie: le più esposte alle conseguenze dell’aumento delle temperature e della degenerazione degli ecosistemi perché più socialmente ed economicamente deboli e marginalizzate. È del 2021 la campagna lanciata da Thunberg insieme all’associazione animalista Mercy For Animals, di cui è online un bellissimo video nel quale l’attivista, notoriamente vegana, ha condannato lo sfruttamento degli altri animali a scopi alimentari. Pur avendo inserito il passaggio a un sistema alimentare meno impattante, più locale, più trasparente e a base principalmente vegetale e la disincentivazione del consumo di prodotti di origine animale nel documento forse più rappresentativo delle sue istanze, “Ritorno al futuro”, Fridays For Future Italia finora ha fatto suoi il veganismo e l’antispecismo solo a livello locale.
Se la struttura federalista del movimento ha reso possibile che alcuni gruppi abbracciassero esplicitamente temi ulteriori rispetto a quelli programmatici, infatti, essa ha tuttavia determinato la marginalizzazione di quei temi rispetto alla sua elaborazione teorica e alla prassi sia a livello nazionale che internazionale. Sebbene molti animalisti abbiano rimproverato a Thunberg di non aver imposto veganismo e antispecismo a tutti i gruppi nazionali, la relativa emancipazione del movimento dalla sua fondatrice e la – giusta – attenzione per la democraticità e la dimensione partecipativa dei processi interni hanno impedito che FFF aderisse formalmente alla causa dei diritti e della liberazione animale. A questi motivi si può certamente aggiungere il timore, spesso espresso da singoli membri del movimento, che l’etichettatura di Fridays For Future come movimento vegano e antispecista finisse per farlo identificare, agli occhi dell’opinione pubblica, come movimento per sole persone vegane e antispeciste, con il conseguente allontanamento di molti potenziali sostenitori. Ciononostante, anche sul campo di una lotta così difficile e impopolare come quella per i diritti e la liberazione animale si sono registrati notevoli passi in avanti. Già nel 2019, per esempio, l’organizzazione animalista Roma Animal Save aveva stretto rapporti di collaborazione e cooperazione con il movimento ecologista e, d’accordo con il gruppo locale di Fridays, tenne una performance e un discorso – a cui ne sarebbero seguiti diversi altri – sull’interconnessione di crisi eco-climatica, crisi pandemica e sfruttamento animale durante il Climate Strike dell’autunno 2020. Nel corso dell’ultimo sciopero romano, Fridays For Future Roma ha autonomamente organizzato (e preliminarmente pubblicizzato tramite i suoi media), la distribuzione di un pranzo vegano all’arrivo del corteo in piazza San Giovanni in Laterano. Lo ha fatto autonomamente perché, purtroppo, con l’uscita di scena di Roma Animal Save (e dell’altra organizzazione animalista che ha collaborato con il gruppo romano di Fridays, Disobbedienza Animale), nessun’altra realtà capitolina attiva per i diritti e la liberazione animale ha collaborato con gli ecologisti.
A livello nazionale le cose non vanno molto meglio. Alla tradizionale allergia degli animalisti e delle animaliste italiane verso le altre lotte sociali, anche in occasione di questo Climate Strike ha fatto da sfondo un certo moralismo pseudo-rivoluzionario e un “coerentismo” repressivo. La superficiale, sciagurata decisione di Climate Social Camp, meeting internazionale di attivisti e attiviste climatiche e sociali, di utilizzare dei pesci morti in una loro azione dimostrativa durante lo Strike di Torino è stata giustamente oggetto di critiche da parte animalista. Meno giusto il tenore delle critiche stesse, di cui alcune leggibili nella sezione commenti di un post del meeting, che spaziano dalla presunta dissonanza cognitiva (termine passe-partout usato per accusare di incoerenza) degli attivisti protagonisti dell’azione incriminata, alla rivendicazione della necessità di una coerenza fra mezzi e fini che, posta com’è, assume tratti magici. Non si capisce, infatti, perché non si potrebbe combattere l’antropocentrismo con mezzi antropocentrici, o il capitalismo con mezzi capitalistici: sarebbe come negare a priori che una lotta violenta possa condurre a una società meno violenta di quella attuale. La coerenza magica fra mezzi e fini è stata rivendicata anche durante il Climate Strike di Napoli, dove la referente nazionale dell’organizzazione animalista Animal Save Movement, che evidentemente non teme di lanciarsi in generalizzazioni indebite, ha accusato gli scioperanti, dall’altoparlante del furgoncino che apriva il corteo, di “non capire un cazzo” perché da un lato manifestano per il clima, dall’altro consumano prodotti animali presso ristoranti fast-food. Un’accusa mossa con intenti emancipativi e progressisti, ma che echeggia le parole d’ordine della destra sull’ignoranza e sul conformismo dei manifestanti. Nel suo post-denuncia contro il presunto specismo, il sessismo e la colonialità dello Strike, il collettivo romano antispecista, antifascista e transfemminista intersezionale Rete Antispecista ha accusato Fridays For Future di essere diventato “un mero strumento all’interno di un sistema patriarcale fatto di nuclei sinistroidi stagnanti, che strizzano l’occhio ad una immobilità sociale che vede il cambiamento come una responsabilità da prendere sottogamba”, dove “prendere sottogamba” stigmatizza il giusto rifiuto, da parte di Fridays, di iper-responsabilizzare il singolo demandandogli la responsabilità del cambiamento in un sistema che, invece, resta uguale a sé stesso.
Una concezione volontaristica di matrice anarchica (K. Marx, F. Engels, “La critica dell’anarchismo”, 2016) che però, a differenza di certo vitalismo che solitamente contraddistingue l’anarchismo, sembra piuttosto intollerante nei confronti delle “orde di liceali” e della loro “musica assordante” in piazza. Non ci si aspetterebbe neanche la denuncia di infantilismo di alcuni cartelloni. Infatti la distanza posta dagli umani fra sé e gli altri animali, che è funzionale al progetto di dominio della natura, sul piano culturale si fonda sulla repressione degli aspetti umani considerati più vicini all’animale genericamente inteso, ovvero tutto ciò che è meno che strumentalmente razionale. Di conseguenza il progetto di dominio della natura comporta l’oppressione di intere categorie sociali (fra cui le donne, le persone razzializzate, i “pazzi” e, appunto, i bambini), che sarebbero ree di mancare di questo tipo di razionalità e quindi di essere – immaginate come – pericolosamente vicine agli altri animali. L’esito repressivo del paradigma della coerenza vegana è la delegittimazione della piazza. Leggiamo ancora nel post: «Chi, di sua spontanea volontà, sceglie di NON [sic, NdA] riconoscere quella che è la verità, chi sceglie l’ignoranza selettiva, non può permettersi di scendere orgogliosamente in piazza in nome di una transizione ecologica scegliendo di nominare solo quei cambiamenti che non mettano in discussione i propri comportamenti [tutto in grassetto nel testo, NdA], puntando il dito contro le multinazionali che loro stessx continuano a finanziare e sostenere nell’ombra del loro carnismo». È qui appena il caso di notare che, storicamente, nessun movimento di massa abbia mai avuto vita senza che le più grandi contraddizioni, ingenuità e meschinità vi abbiano preso parte; e che le proiezioni pseudo-intellettualistiche di una manciata di osservatori e osservatrici borghesi non cambiano questo dato che, per spiacevole che sia, è e resta di fatto. Come scriveva Lenin ne “L’estremismo”, la rivoluzione si fa con gli esseri umani così come sono nel modo di produzione capitalistico, non con quelli che vorremmo che fossero (e che saranno, ma solo quando ci saranno anche le condizioni materiali della loro esistenza, e cioè il controllo dei mezzi produttivi ad opera della classe rivoluzionaria). La stessa classe che rischia di morire soffocata sotto la cappa della “decostruzione”; concetto che gli antispecisti anarcoidi, liberali e cripto-liberali radicali mutuano da Derrida e applicano indebitamente all’auto-miglioramento individuale senza il quale, appunto, non ci si potrebbe permettere “di scendere orgogliosamente in piazza”. Speriamo almeno che ce lo lascino fare senza orgoglio: noi non ci formalizziamo.
Le difficoltà del moralismo pseudo-rivoluzionario e del coerentismo repressivo rivelano tutto l’identitarismo dell’antispecismo anarcoide e liberal-radicale quando pongono lo specismo come base di tutte le oppressioni; motivo ricorrente nelle reazioni animaliste al Climate Strike. La rivendicazione della centralità dell’antispecismo implica infatti che nessun’altra rivendicazione, nessun’altra lotta possa essere condotta senza essere antispecisti; dove la prescrizione relativa alla propria identità – e non alla realizzazione di un modo di produzione non antropocentrico, il solo che potrebbe generare identità non antropocentriche con una frequenza meno che occasionale – tradisce le sue radici filosofiche idealistiche. Ironicamente, come abbiamo visto, a condividere queste radici è proprio Greta Thunberg, quando dice che la crisi eco-climatica “nasce dall’idea [corsivo non nel testo, NdA] che alcune persone valgono più di altre” (come le renne allevate dai Sami le quali, nonostante il suo animalismo, sembra che per Thunberg valgano meno dei Sami stessi). Meno idealista degli antispecisti moralisti pseudo-rivoluzionari e della fondatrice di Fridays For Future, con cui ci auguriamo che il mondo animalista italiano sappia ritrovare modalità collaborative costruttive, è il capitale, ai cui scopi nulla importa di chi valga più e chi meno in base a considerazioni soggettive; perché tutto mette a valore. Anche chi si pensasse uguale.
di Dario Manni, Gruppo di Antispecismo Politico