Dopo più di un mese dalla pubblicazione del video su Facebook, il caso Grillo continua a far parlare di sé? Facciamo un passo indietro.
Nel tentativo di riabilitare la figura del figlio e degli amici e di difenderli dalle accuse di stupro, il fondatore del Movimento 5 Stelle pubblica il tristemente famoso video per scagionare l’illustre accusato. Sortisce l’effetto contrario: la pletora di fedelissimi si trova improvvisamente decimata, l’attenzione mediatica sul caso esplode e a Ciro Grillo non resta altro che raccogliere le sentenze di colpevolezza e innocenza delle tifoserie social, in attesa di quella della Giustizia italiana.
Beppe Grillo capovolge il senso dei fatti, lo manipola, assegnando, arbitrariamente, i ruoli di vittime e carnefici, di persone che hanno ragione e che hanno torto consegnandole in pasto al pubblico social con un’attribuzione di significato personalistica e parziale.
Il tentativo di Beppe Grillo di spostarsi nella propria metà campo, dove poter recuperare la legittimazione della parola e del pensiero e portare l’ascoltatore dalla propria parte incontra però questa volta una platea diversa.
E il meccanismo di manipolazione dei ruoli si inceppa.
Grillo-gate: i giornali continuano a scrivere
Il caso di Ciro Grillo continua a riempire le pagine dei giornali: spuntano chat, conversazioni, dialoghi tra amici che, in un mix tar anglofonia e slang giovanile, raccontano di serate fatte di alcol, stupefacenti e, spesso, di un ancora non chiarito “3 vs 1”.
Grillo, forse perché obnubilato dal dolore di un padre che vede il proprio figlio accusato di stupro di gruppo ai danni di una ragazza 20enne, tenta l’impresa – non difficile, ammettiamolo – di spostare il focus dell’attenzione ed il peso della colpa. Tenta di capovolgere il senso della vicenda, modificandone le dinamiche e costruendo in questo modo una narrazione utile al raggiungimento dei propri fini.
Ma il suo sfogo questa volta scivola in un contesto mediatico meno remissivo.
Grillo cade nella Rete, la sua, quella che ha ben saputo dominare, e si trova invischiato nelle stesse dinamiche che, lui stesso come capo di un movimento politico, ha combattuto: la solidarietà arriva, certo, dai suoi, dall’establishment, persino da quei giornalisti che hanno abdicato al loro ruolo di disturbatori del potere in favore di un atteggiamento più diplomatico. Ma altri, molti altri, hanno puntato i piedi, hanno urlato l’aberrazione del discorso di Grillo e se non sono riusciti a fargli chiedere scusa, hanno almeno dimostrato come la campana di vetro che troppo spesso protegge i famosi, i potenti, i maschi bianchi, etero, con uno straccio di potere riconosciuto, stia iniziando ad incrinarsi.
“Arrendetevi, siete circondati”. Te lo ricordi, Beppe?
Maggio, il mese delle parole
La scelta della donna è sempre sbagliata, sempre imprecisa, arriva sempre al momento sbagliato, non è mai all’altezza di ciò che è giusto. E così, la colpa è sempre della donna, le appartiene, non può liberarsene. Ne è schiava. La donna – come gli omosessuali, i migranti, le persone di colore – ed i suoi atteggiamenti, le sue scelte, le sue convinzioni sono sempre elementi da vagliare e validare. Non c’è giustizia, ma solo giudizio. E indovina da chi sono avallate le parole per esprimere questo giudizio?
Da un paio di settimane a questa parte, sono diverse le polemiche che si sono susseguite sulla scelta delle parole e sul loro uso, soprattutto nei contesti mediatici.
Quanto sono importanti le parole che pronunciamo?
Quanta attenzione ci facciamo, che peso hanno, quando possiamo dirle e quando, invece, anche veniamo accusati di non poterle pronunciare?
Grillo, Pio e Amedeo, Fedez. Tutti uomini che, nelle scorse settimane, hanno scelto quali parole fare proprie, quali utilizzare, a quale sistema semantico appartenere. Ché le parole, lo ripetiamo ancora, hanno un peso, non sono solo segni grafici contenuti nel vocabolario: sono la chiave della propria interpretazione della realtà, della misura del rispetto e della cura verso noi stessi e gli altri. Le parole si scelgono. E guai a scagliarle, guai a considerarle roba di poco conto.
E si creano dunque dei cortocircuiti in cui, per presunta ironia, posso effettivamente utilizzare parole come “frocio” o “negro” e se non lo faccio sono un radical chic di sinistra, anche un po’ pesante, ma non posso dire, al contrario, che un leghista ha pubblicamente annunciato di voler bruciare il figlio gay in un forno.
Le parole, quelle giuste, aprono mondi e creano suggestioni. Sono melodie, le parole, che accolgono, stringono, creano connessioni. Sono incredibili strumenti, e se ne rimane affascinati a vedere quante ce ne siano, quante sfumature abbiano, quale sofferenza e quanto lavoro dietro la scelta di una parola.
Le parole compongono i pensieri, che sono forti o deboli a seconda delle nostre scelte lessicali. Sono la lente attraverso cui interpretiamo la quotidianità. Avere più parole, significa avere più capacità di comprensione.
Ma le parole, quelle belle non sono per tutti. Né lo sforzo di considerarle qualcosa in più.
E se è tutto vero, se è vero che ad ogni parola corrisponde un valore ed un pensiero, allora tanto più il discorso di Grillo, diffuso su Facebook ad una platea di milioni di italiani, non può essere considerato lo sfogo innocente di un padre ferito.
“Una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo 8 giorni fa la denuncia è strano”.
“Sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo”.
“Si vede il gruppo, si vedono quattro coglioni che saltellano con il pisello in mano”.
“Allora arrestate anche me, ci vado io in galera”.
Innocenti fino a prova contraria, certo. Ciro Grillo e gli amici magari non hanno fatto davvero nulla, magari c’era consenso da parte della ragazza, magari è tutta una tecnica per avere maggiore visibilità, lei, che non ha neanche diffuso il suo nome. Magari è un complotto politico per infangare il fondatore di una forza di Governo.
Magari.
Ma il garantismo – questo spettro che si aggira per le strade dell’Italia, accolto o scacciato a seconda degli imputati – non può tollerare la violenza del linguaggio e delle intenzioni. Non può essere un alibi per l’affermazione di un sistema valoriale che vede l’uomo al di sopra della morale e delle basilari regole di convivenza, e mette in dubbio le parole della donna.
Rileggile ogni tanto quelle frasi, riascolta ogni tanto il discorso di Grillo. Vallo a guardare, più e più volte. E vedi, in quel volto paonazzo, nella prossemica accusatoria e paternale, l’arroganza e la presunzione di un uomo che, beceramente, abusa delle briciole di potere che si ritrova per le mani.
Questione di Grillo o questione grillina?
Intanto stupisce che, dal giorno della diffusione del video di Beppe Grillo, gli adepti del suo movimento non abbiano battuto ciglio. Di fronte a parole come “quattro coglioni che saltellano col pisello in mano” e ad accuse plateali ed esplicite di aver mentito, di essersi messa volontariamente in un tritacarne, i paladini dell’onestà, della giustizia, del colpevolismo più spinto, hanno semplicemente scelto di non commentare. Alle urla, hanno contrapposto il silenzio. Agli sputi, d’esserne parte. Alla vergogna dell’accusa, di sostenerla.
Come fosse normale vedere un uomo con un seguito così rilevante, un uomo che ha fondato un movimento politico espressione di ministri nell’attuale composizione di governo e di un Presidente del Consiglio, sbraitare contro la giustizia italiana ed accusare una ragazza di aver inventato una violenza sessuale.
Come fosse normale parlare di un video in cui si vedrebbe la consensualità del rapporto ad una platea di milioni di persone.
Come fosse normale, ma forse lo è. Perché se il Movimento 5 Stelle non si è sentito in dovere di dissociarsi dalle parole del suo padre putativo, allora ne è complice, la pensa esattamente come lui.
E se al Governo c’è un movimento che tollera i capovolgimenti di colpe e promuove il garantismo ad intermittenza, siamo davvero al sicuro?
Edda Guerra