Il tempo e l'acqua di Andri Snær Magnason: sulle tracce della crisi climatica
Come parlarne
questa cosa che non fa rima
né vibra in giambi o si muove in modo prevedibile
come linee
o frasi
Come trovare la sintassi
di questa cosa
che cavalca le maree
e si muove con loro e sotto di loro
e insieme a loro
e possiede un ventre così largo e profondo
che nemmeno le nostre luci più potenti
sanno illuminarne l’intero corpo1

[…]


Il 20 aprile 2010 la piattaforma di perforazione Deepwater Horizon lavorava sul Pozzo Macondo, nel Golfo del Messico, quando un’esplosione ha innescato il disastro ambientale più grave della storia americana, che tutt’ora, nel tetro panorama della crisi climatica, continua a uccidere: le valvole di sicurezza all’imboccatura del pozzo sono saltate e il petrolio si è riversato in mare senza controllo, per arrestarsi definitivamente solo cinque mesi dopo, a conclusione dell’operazione Static Kill.
I versi di Midnight Oil, opera della poetessa Sheryl St. Germain (New Orleans, 1954), si stirano e si interrogano, nel tentativo di dare corpo alla “Marea nera”. Si aggrappano al petrolio, per lasciarsi trascinare dalla sua avanzata mortale, senza mai dominarlo: ogni strofa è un’immersione, sempre più profonda, nella «forma che non possiamo nominare»2. La poesia è giustificata a destra della pagina e, con il succedersi dei versi, disegna una linea sinuosa e scomposta: sembra piegarsi ed espandersi, assieme al corpo nero e viscoso. Rigurgita «un bimbo informe e rugginoso che striscia fuori di me / […] diffondendosi e pulsando tra le mie gambe / oscurando il mondo»3.

L’esplosione sulla piattaforma Deepwater Horizon.

Sheryl St. Germain ha immaginato di immergersi nel petrolio, lo ha lasciato fluire dal suo stesso corpo e ce ne ha restituito una sequenza di visioni istantanee, tutte diversissime, mai globali. La sua poesia esplora la profondità di un “disastro ambientale”, tuffandocisi dentro e riemergendo coperta di orrore: un’espressione così inflazionata di colpo ha iniziato a vomitarci addosso strane creature, ad invischiarci nella sua melma, solo a pronunciarla.
Le immagini, forse, assieme ai racconti concorrono a riempire di senso le parole più vaste, così complesse nei loro riferimenti da sembrare vuote e leggere, alle nostre orecchie assuefatte. Guidato da questo assunto si è mosso Andri Snær Magnason (Reykjavik, 1973) nella scrittura de Il tempo e l’acqua, opera pubblicata per la prima volta nel 2019 dalla casa editrice islandese Màl og Menning ed edita in italiano da Iperborea nel settembre 2020, con la traduzione di Silvia Cosimini. Magnason è un narratore, poeta e drammaturgo, impegnato anche in divulgazione scientifica, politica e attivismo ambientale; la sua ultima opera consiste in un tentativo di donare senso e corpo alla “crisi climatica”, che prende forma in una collezione di riflessioni personali, racconti di vita, dati scientifici e fotografie. Attingendo dal Daodejing di Laozi, scritto in Cina tra il IV e il III secolo a.C., l’autore indugia sull’idea per cui «…l’essere costituisce l’oggetto / e il non essere costituisce l’utilità»4: così come l’utilità della ruota, per il filosofo cinese, viene a costituirsi grazie agli spazi vuoti tra i suoi raggi, quel che è essenziale per la vita sulla Terra resiste a condizione degli spazi “vuoti”, non umani. Riempire questo vuoto ha significato, e significa, farlo fruttare: gli spazi incontaminati guadagnano la loro legittimazione in base all’occupazione che creano, ai turisti che attirano, alle pubblicità cui possono fare da sfondo. Questo “vuoto”, adesso, è troppo pieno e la ruota minaccia di smettere di girare. La scrittura di Magnason lambisce i confini del vuoto senza rischiare di riempirlo col linguaggio del profitto; della crisi climatica ci restituisce le molteplici tracce, lasciandocele ricomporre, storia dopo storia: l’altopiano di Kringilsàrrani, la magnificenza del Vatnajökull, i “Monti Celesti” del Tibet, la mitologica mucca di brina, il coccodrillo gigante del Pleistocene e il Dalai-Lama sono solo alcuni protagonisti di un’antologia di vicende dispiegate nel tempo, che ricuciono, scena per scena, una scala temporale altrimenti difficile da concepire.

Il tempo e l'acqua di Andri Snær Magnason: sulle tracce della crisi climatica
La copertina de Il tempo e l’acqua. Fonte: https://iperborea.com/titolo/554/

«Il tuo tempo è il tempo di qualcuno che conosci, che ami e che ti influenza. E il tuo tempo è anche il tempo di qualcuno che conoscerai e che amerai, il tempo che tu creerai»5: ne Il tempo e l’acqua, il tempo ha la forma delle cose che amiamo, di quelle a cui siamo sopravvissuti e di quelle che, incuranti, ci sopravviveranno. O almeno così crediamo. L’attuale livello di CO2 nell’aria, in piena crisi climatica, supera i 400 ppm e le barriere coralline prosperano in ambienti in cui il livello di anidride carbonica dell’aria non supera i 350 ppm; il CO2, infatti, non scompare quando il mare l’assorbe: provoca l’acidificazione dell’acqua e, di conseguenza, una riduzione della saturazione del carbonato di calcio. Un ambiente marino sottosaturo dovrà assorbire calcio e, per farlo, scioglierà le conchiglie e le barriere coralline. Se entro il 2050 il riscaldamento globale non superasse il grado e mezzo, il 90% dei coralli scomparirebbe comunque: è significativo, considerando che le previsioni attuali contemplano un riscaldamento di tre gradi, forse quattro. È probabile, inoltre, che l’acidificazione e la temperatura dell’acqua influiscano anche sul fitoplancton, l’insieme degli organismi fotosintetici del plancton, che attraverso la fotosintesi clorofilliana producono il 60% dell’ossigeno del pianeta. A proposito di acqua: quasi tutti i ghiacciai del mondo, oggi, sono in fase di recessione e se continueremo di questo passo il loro ciclo vitale sarà concluso entro la fine del secolo. Nel giro di poche decine d’anni centinaia di milioni di persone dovranno migrare perché le terre che abitano saranno sommerse e, quando i ghiacciai saranno scomparsi del tutto, nelle zone in cui dagli stessi dipende l’approvvigionamento idrico, la stagione secca vedrà un calo drastico dei volumi d’acqua disponibile, con tutti i problemi umanitari e geopolitici che ne conseguiranno.

Il tempo e l'acqua di Andri Snær Magnason: sulle tracce della crisi climatica
La locandina di Das Rad, cortometraggio di Chris Stenner, Arvid Uibel e Heidi Wittlinger. Fonte: https://www.filmaffinity.com/en/filmimages.php?movie_id=660874

Il nostro è il tempo delle persone che abbiamo amato, e di quelle che ameremo che ancora non esistono; è il tempo delle cose che vogliamo conservare e di quelle che abbiamo perso, delle quali non ci restano altro che tracce, a dimostrare che un tempo sono esistite, e le abbiamo amate. Il nostro tempo è quello del mare e dei ghiacciai che, nell’era dell’Antropocene, cambiano e si esauriscono nell’arco della vita di un essere umano.
Le storie di Magnason non sono altro che tracce: sono segni alla nostra portata, metonimie della «forma che non possiamo nominare». Solo inseguendo le tracce la “crisi climatica” acquista un senso, una profondità, una storia. La poesia e la narrazione connettono punti distanti nel tempo e nello spazio, con la fugacità di un’analogia: possiamo ascoltare le vite di chi non c’è più, sentire il monito di quelle che verranno, immergerci nelle sterminate catene ghiacciate dell’Islanda e del Tibet, riunite sotto il segno di una mucca bianca e primordiale, che ha nutrito gli uomini lasciando scivolare a valle i suoi fiumi di latte. Sarebbe forse più agevole immaginare la “Natura” senza di noi, dopo di noi: acquattarci dietro gli occhi di una roccia che ci ha appena visti scomparire, come accade in Das Rad, il cortometraggio del 2003 di Chris Stenner, Arvid Uibel e Heidi Wittlinger, in cui 8 minuti accelerati condensano la vita e la morte della civiltà umana dalla prospettiva di due serafiche rocce. Nel finale lo spettatore sperimenta la situazione paradossale di guardare il mondo dopo di noi, proprio quando non è più un mondo per nessuno. Adesso, però, il mondo sembra ribellarsi al nostro sguardo ancora prima di vederci morire.


[…]

come dev’essere sentirsi una tartaruga, per esempio
nuotare nelle sole acque che hai mai conosciuto
nuotare perché è il solo modo in cui ti muovi per il mondo
e finire su questa nera bile
questa specie di untuoso amante
una cosa che ti guarda
come una medusa, che ti ci tuffi e cerchi di mangiarla
e invece ricopre le tue pinne che non si muovono più come
prima
e c’è questo peso sul tuo guscio e sulla tua testa
che prima non c’era, e sei cieco
nelle acque in cui sei nato.6

Siria Moschella


1 Midnight Oil, Sheryl St. Germain, vv. 1-13, traduzione italiana di Roberto Canella.
2 Ivi, v. 16.
3 Ivi, vv. 23-27.
4 Lao Tzu, Tao Te Ching, a cura di L. Parinetto, La Vita Felice, Milano 1995.
5 Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, p. 26, Iperborea, 2020.
6 Midnight Oil, Sheryl St. Germain, vv. 28-39, traduzione italiana di Roberto Canella.

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