La recente scoperta da parte dei parlanti dell’italiano standard di una piccolissima [e] capovolta ha generato le più varie delle reazioni: da una parte c’è chi subito si è immolato, prontə a difendere a spada tratta l’incolumità della propria lingua madre; dall’altra c’è chi ha mostrato un atteggiamento di apertura (con non poche perplessità) nei confronti di questo esperimento linguistico. Sappiamo già quale dei due gruppi rappresenta la maggioranza. Questo piccolo simbolo ha nome: schwa, ma non ha avanzato pretese, ne tantomeno ha avuto l’ardore di proporsi come soluzione certa e assoluta alle problematiche del linguaggio esistenti, che la sua stessa presenza ha risollevato.
Ma forse prima di parlare dello schwa è necessario fare un piccolo passo indietro, in fin dei conti, per formulare un’ipotesi (non sempre richiesta) riguardo questioni linguistiche vi sarà capitato di interrogarvi almeno una volta su cos’è il linguaggio e perché, ad esempio, la parola “felicità” è utilizzata per descrivere uno stato di gioia e appagamento interiore e non, per così dire, per parlare di un tipo di animale esotico.
Sin dalla nascita gli esseri umani, oltre ad essere dotati di un senso innato di appagamento quando si tratta di abitare una realtà uguale a se stessa e reticente a qualsiasi tipo di cambiamento, dispongono anche della capacità di acquisire un linguaggio. Questo, oltre a fornire un’idea delle ragioni per cui la scoperta dello schwa abbia generato così scalpore, mette in chiaro anche come la capacità di acquisire un linguaggio non sia un meccanismo artificioso che si avvia ad un certo punto della propria esistenza. La sociolinguista Vera Gheno in un Ted Talk del 2018 parla degli esseri umani come «gli unici animali in grado di utilizzare uno strumento così sofisticato come il linguaggio umano». Essi, infatti, grazie al linguaggio, hanno la possibilità di comunicare tra loro, di descrivere la realtà e i suoi cambiamenti, di raccontare storie e scoperte.
A furia di parlare e parlare, però, è raro che qualcunə si interroghi sullo strumento utilizzato per farlo, né tantomeno sulle ragioni arcane per cui ad una parola specifica corrisponde un rispettivo significato. Eppure una lingua non è mai uguale a se stessa, per quanto assurdo possa sembrare, ha una propria storia, ha subito cambiamenti e si è rinnovata con l’introduzione di nuovi termini ed evoluzioni della sua struttura interna. Cominciare a concepire una lingua come dotata di una storia, vuol dire riconoscere un passato in cui non era uguale a com’è oggi, vuol dire comprenderne consapevolmente le peculiarità che la caratterizzano nel presente e ammettere un futuro in cui potrebbe essere diversa. La storia della lingua è la storia dei parlanti e, essendo uno strumento di cui questə ultimə hanno bisogno, si muove pari passo con le loro necessità.
Dunque, se l’invenzione di nuove tecnologie rende necessaria l’introduzione di nuovi termini per riferircisi, la stessa idea dell’introdurre lo schwa manifesta un nuovo bisogno di una parte dei parlanti che, per via di una caratteristica intrinseca della lingua italiana, essendo essa una lingua con generi grammaticali, trova difficile persino autodefinirsi.
Ma cos’è lo schwa e perché potrebbe essere una soluzione?
Lo schwa [ə] è uno dei simboli dell’IPA (International Phonetic Alphabet). Essendo una vocale media, si trova al centro del quadrilatero delle vocali e, a differenza delle altre vocali che quando vengono pronunciate richiedono una deformazione della bocca, si pronuncia con la bocca a riposo. Il suono dello schwa non è totalmente estraneo ai parlanti dell’italiano, poiché è presente in alcuni dialetti, specialmente meridionali, a differenza dell’asterisco, dunque, può essere pronunciato.
L’ipotesi dell’introduzione dello schwa nel repertorio morfologico dell’italiano nasce all’interno di alcuni gruppi LGBTQIA+ e collettivi femministi, poi appoggiati dalla sociolinguista Vera Gheno, per fornire uno strumento alle persone non binarie, che quindi non si identificano totalmente nel binarismo di genere, per autodefinirsi e parlare di se stesse. Lo schwa non si propone come imperativo assoluto, ma come una scintilla che mette in luce una problematica esistente da sempre tra i parlanti dell’italiano e alla quale forse è giunto il momento di prestare attenzione.
Quando si ci rivolge ad una moltitudine di persone, abitualmente viene utilizzato il cosiddetto maschile sovra-esteso (“ragazzi” anche se si sta parlando ad un gruppo formato da 2 ragazzi e 5 ragazze e via dicendo). È possibile utilizzare la doppia formula, rispettivamente con entrambi i generi grammaticali dell’italiano, ma per le persone non binarie il problema persiste e, data la caratteristica stessa di questa lingua, non vi è alcuna soluzione, se non la sperimentazione linguistica. Anche i parlanti di altre lingue si sono messə alla ricerca di soluzioni efficaci promuovendo un linguaggio più inclusivo: in inglese viene utilizzato il singular “they”, in svedese è stato persino introdotto un nuovo pronome “hen” per riferirsi alle persone non binarie.
Superare il concetto di linguaggio inclusivo
Quando si parla di schwa e di sperimentazione linguistica, si fa subito riferimento al concetto di “linguaggio inclusivo”, un linguaggio che, dunque, include le diversità. Il concetto stesso di “inclusione”, però, ha delle implicazioni forti alle quali bisogna prestare attenzione: c’è un primo gruppo che, dotato di agency, assorbe il secondo gruppo, quello diverso, che è passivo e subisce l’azione, essendo privo di agency. Le due parti chiaramente non sono poste sullo stesso piano e non solo in questo modo diventa chiaramente una questione di potere, ma di squilibrio di potere.
Per questo, Fabrizio Acanfora, nel suo saggio “La diversità è negli occhi di chi guarda” introduce il concetto di convivenza delle differenze, dipingendo con questa nuova e appropriata definizione un nuovo orizzonte che rende giustizia alle differenze e le riconosce come caratteristiche essenziali che rendono ogni persona quello che è e diversa dall’altra, nell’ottica di una convivenza che non divide in gruppi e sottogruppi, ma che ne riconosce un unico e solo.
SCHWA: Sì o No?
L’introduzione dello schwa non si pone come punto d’arrivo o come un’imposizione, ma è un’ipotesi che si propone come risposta ad una problematica a lungo ignorata. D’altro canto rendere effettivo l’utilizzo dello schwa a fine parola, richiede la completa partecipazione dei parlanti dell’italiano, cosa che nessun tipo di imposizione può garantire. Utilizzando lo schwa, viene introdotto un vero e proprio cambiamento morfologico all’interno della lingua italiana, non si tratta dell’acquisizione di un neologismo, ma di un vero e proprio cambiamento strutturale, che può avvenire solo grazie alla partecipazione dei parlanti.
Le persone hanno il potere di utilizzare le parole giuste e se non ce ne sono abbastanza, l’esistenza dei cambiamenti linguistici è la prova che è possibile fare comunque qualcosa. C’è chi per proteggere lo status quo da qualsiasi tipo di alterazione combatte ogni proposta di cambiamento identificandola “dittatura del politically correct” , ma cominciare a percepire e concepire una realtà che cambia, anche attraverso e con il linguaggio, si scontra col pensiero egemone e ricerca soluzioni per tutelare tutte le identità in ogni campo è la strada per una società più giusta.
Giuseppina Pirozzi