Il popolo ha deciso: il Parlamento diventerà più piccolo. Il Sì al referendum ha vinto con il 69%, un «risultato storico», come ha detto il ministro Luigi Di Maio. Il Movimento Cinque Stelle è riuscito dove Renzi, Berlusconi e altri nomi meno noti hanno fallito, ridurre il numero di deputati e senatori. Difficile negare, dunque, che il taglio dei parlamentari rappresenti una vittoria politica dei grillini. Sarà totale, però, solo quando (e se) verrà avviata una discussione seria sulla composizione della rappresentanza.
Il risultato era scontato. L’antipolitica, quel sentimento anti-casta fomentato dalle nuove formazioni partitiche, è entrata nelle vite di ognuno di noi in maniera viscerale, al punto che quando si sente parlare di un parlamentare difficilmente gli si associano vocaboli di piacere. Un sentimento per certi aspetti legittimo, dato che la classe dirigente non è riuscita a dare risposta alle due grandi crisi di questo secolo: quella del 2008 e quella del 2011. Questa volta, però, in gioco ci sono le istituzioni, su cui i ragionamenti di pancia non hanno mai prodotto buoni risultati.
Nonostante le percentuali bulgare del Sì, non sono pochi coloro che si chiedono cosa accadrà al Parlamento e quali saranno le conseguenze della modifica costituzionale. Molti temono per la rappresentanza, altri sostengono che con meno deputati e senatori aumenterà la competizione per ottenere un seggio e, di conseguenza, migliorerà la qualità dei rappresentanti.
Taglio dei parlamentari: i dati tecnici della riforma
Mediante referendum è stato chiesto agli elettori se fossero d’accordo nel procedere con la modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. Con la vittoria del Sì il numero di parlamentari verrà ridotto di 345 unità. Nello specifico la Camera passerà da 630 a 400 deputati, mentre il Senato da 315 a 200 senatori. Gli eletti nella circoscrizione estero diminuiranno, passando da 12 a 8 deputati e da 6 a 4 senatori. Il Presidente della Repubblica potrà inoltre nominare un numero massimo di cinque senatori a vita.
Si tratta di una riduzione prettamente numerica e irrilevante? Non proprio. Quando si incide così nettamente sulla rappresentanza si innesca una reazione a catena. Con il taglio dei parlamentari cambierà anche il funzionamento delle commissioni, quel motore immobile e “causa prima del divenire” dell’attività legislativa del Parlamento, che verrebbero ridotte di un terzo (36%) e che andrebbero in tilt senza i dovuti correttivi. Prima di tutto, però, è necessaria una nuova legge elettorale, abbinata a collegi ridisegnati ad hoc sul nuovo numero di parlamentari. Con l’attuale legge, infatti, alcune Regioni sarebbero sotto-rappresentate soprattutto al Senato (il quale viene eletto su base regionale). La legge vigente non andrebbe bene, dato che per un terzo è maggioritaria e ha collegi troppo ampi.
Per evitare di creare squilibri o situazioni di fittizia forza parlamentare, soprattutto al Sud, la nuova legge elettorale (proporzionale?) dovrà garantire un sostanziale equilibrio nella rappresentanza e dovrebbe essere abbinata a una modifica costituzionale che elimini del tutto la vocazione “regionale” del Senato. Una proposta di questo tipo esiste e proviene da Liberi e Uguali, partito di maggioranza. Così facendo, i parlamentari potrebbero mettere in discussione l’utilità anacronistica del bicameralismo perfetto, altro problema su cui si discute da diversi anni e considerato a più riprese il vero responsabile dell’inefficienza parlamentare e dei ritardi a esso connessi.
Pare che la maggioranza governativa stia spingendo per una riforma modello “Germania”, con una soglia di sbarramento al 5%, ma le proteste di Italia Viva impediscono ogni avanzamento della legge. A dire il vero, si parla di una nuova legge elettorale dall’ottobre 2019, mese in cui il Parlamento ha approvato la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Si credeva di poter trovare un accordo, e non solo tra le forze di governo, entro la fine dello scorso anno, ma così non è stato.
Sulla legge elettorale, poi, non sono soltanto i partiti della maggioranza ad essere preoccupati. Ci sono anche ex politici, costituzionalisti, esperti del settore e partiti di opposizione. Secondo questa nutrita schiera di individui, il proporzionale andrebbe a danneggiare la stabilità governativa dell’esecutivo. Una cosa non da poco, il desiderio di ogni governo che aspiri a durare più di due anni. Da Walter Veltroni a Romano Prodi, passando per Enrico Letta e Giancarlo Giorgetti, i nomi illustri che si son schierati contro il proporzionale puro, che in sostanza riporterebbe l’Italia ai governi brevi della Prima Repubblica, sostenendo che soltanto con un maggioritario l’Italia riuscirebbe ad avere governi più longevi.
Ancora più importante di una legge elettorale è la modifica dei regolamenti parlamentari che disciplinano Camera e Senato, in particolare la composizione in gruppi dopo le elezioni e, successivamente, in commissioni competenti per materia. Le attuali sarebbero troppo grandi per il nuovo numero dei parlamentari. Al momento le strade sono tre: una riduzione dei membri per commissione, una riduzione delle commissioni o uno sdoppiamento dei parlamentari in diverse commissioni, così da riorganizzarle senza incidere troppo sull’efficienza del loro lavoro. Non bisogna nemmeno dimenticare uno dei correttivi più importanti, ossia quello relativo all’elezione del Presidente della Repubblica. La Carta costituzionale prevede tre delegati per ogni Regione, eccetto la Valle d’Aosta che ne ha uno. Con il taglio dei parlamentari il loro peso è aumentato notevolmente, dunque andrebbero diminuiti. La maggioranza ne ha proposti due per Regione.
E la rappresentanza?
Con il Sì al referendum si passa da un deputato ogni 96 mila abitanti e un senatore ogni 188 mila a uno ogni 151 mila e 302 mila. Secondo i costituzionalisti favorevoli alla riforma, questi numeri restano comunque in linea con quelli europei, ma è evidente che solo una riforma elettorale davvero rappresentativa di minoranze e territori sarà in grado di non trasformare quelle fredde cifre in un problema. E in Italia, con il micropartitismo estremo, completamente diverso da quello europeo, non è per niente semplice accontentare tutti.
Se la Lombardia e il Lazio passeranno da 49 deputati e 28 senatori a, rispettivamente, 31 e 18, le Regioni più piccole saranno colpite maggiormente in termini di rappresentanza. L’Umbria e la Basilicata perderanno il 57% dei propri senatori, mentre Calabria, Friuli, Abruzzo e Liguria il 40%. Il Molise avrebbe due senatori, la Basilicata e l’Umbria 3, l’Abruzzo e le altre regioni citate 4. Si tratta di numeri importanti, che potrebbero dar luogo non a una competizione per il seggio ma, più realisticamente, a episodi di corruzione, collusione e clientelismo, dato che la campagna elettorale potrà permettersela solo chi ha i contatti giusti, porta voti e soprattutto i finanziamenti adeguati. Inoltre, senza una vera e propria riforma delle preferenze, i candidati saranno nelle mani dei partiti, i quali decideranno la conformazione del Parlamento, e non dei territori.
Non va nemmeno escluso il risentimento che una situazione di questo tipo potrebbe creare nella popolazione. Il taglio del numero di seggi confermato al referendum va a vantaggio delle Regioni più popolose e il risultato potrebbe essere l’emersione di ulteriori spinte localiste e rigurgiti anti-politici nella piccola provincia italiana, che pure ha avuto un peso importante nella vittoria del Sì alla riforma costituzionale.
Un problema chiamato “Senato”
Il referendum, a modo suo, ha aperto una questione sulla reale utilità di un Senato dimezzato, il quale potrebbe avere difficoltà nell’espletare le stesse funzioni della Camera. I seggi vengono distribuiti su base regionale, e con un taglio alla rappresentanza risulta difficile equilibrare il peso dei partiti minori. In quei collegi sarebbero eletti soltanto i rappresentanti dei partiti più votati, con un evidente sacrificio delle minoranze. L’elezione su base regionale del Senato, in ultima analisi, non porterebbe adeguatamente in Parlamento le istanze delle singole entità territoriali del paese. Senza un serio intervento di riforma del bicameralismo le due Camere non funzionerebbero meglio rispetto a quelle precedenti.
In sostanza, con il Sì alla modifica costituzionale, solo se si abolisse una delle due Camere o la si rendesse specializzata e competente in determinati campi, con una riforma elettorale rappresentativa, si potrebbe avere una riduzione del numero dei parlamentari accompagnata da una maggiore efficienza legislativa. Una soluzione adottata da più Paesi e forse l’unico motivo per continuare a mantenere in vita un Senato dimezzato e troppo piccolo per fare le veci della Camera. Insomma, in un modo o nell’altro il referendum sul taglio dei parlamentari ha riaperto la discussione sul bicameralismo perfetto.
L’esito del referendum pare aprire obbligatoriamente la strada a un periodo di riforme, alcune delle quali non ancora in discussione a Palazzo Chigi. Sul bicameralismo, ad esempio, solo il Partito Democratico condivide l’istanza di una riforma. Dal fronte M5S tutto tace. L’impressione è che, senza correttivi seri e ben definiti, questo taglio potrebbe rivelarsi solo una nervosa e lineare reazione dell’anti-politica a danno della rappresentanza. E, tra l’altro, con un risparmio risibile.
Donatello D’Andrea