In tutte le guerre, il 95% dei morti sono civili. Lo dicono le statistiche e lo dice Gino Strada, nel suo Pappagalli Verdi, edito Mondadori.
Eppure quando si parla di guerra, di avanzamento di truppe, di città conquistate o prese d’assedio, a quella statistica non si pensa mai e l’immagine che viene in mete è sempre una: salotti politici con grandi cartine che rendono più o meno chiara l’idea della condizione geopolitica, del posizionamento degli eserciti sul territorio.
Cosa sono i Pappagalli Verdi?
I pappagalli verdi sono delle mine antiuomo dalla forma particolare: vengono di solito lanciate dagli aerei e, per distribuirsi in ampie zone senza cadere tutte nello stesso punto, hanno delle piccole ali. Così, una volta lanciate, è come se volassero, proprio come degli uccelli. Come dei pappagalli.
Volano in circolo e, una volta cadute per terra, si nascondono nell’erba o tra le sterpaglie, in mezzo ai sassi, nei campi. Capita allora non di rado che un bambino si avvicini, guardi quest’oggetto dalla forma così singolare, un oggetto che è quasi un giocattolo, e lo prenda in mano.
Ma, ai pappagalli verdi, non piace essere raccolti, dice Gino Strada: non piace che qualcuno giochi con loro. E allora, dopo poco, per un movimento brusco o una pressione esercitata lì dove non si dovrebbe, esplodono.
E poco importa se, a tenere in mano uno dei pappagalli verdi, è un bambino di 5, 7, 10 anni. Poco importa se ha chiamato gli amici per far vedere loro questo nuovo, buffo, gioco trovato per strada: esplodono, loro, lasciandosi dietro polvere, pezzi metallici e sangue. E la disperazione di chi impara presto a non fidarsi nemmeno dei giochi.
Gli scenari di guerra – quotidiana, a bassa intensità o ad alta – descritti da Gino Strada nel suo Pappagalli Verdi sono davvero tanti, diversi, ma accomunati da un unico fil rouge: non è il lavoro il senso della vita, non è il sacrificio. È la quantità di cura che siamo disposti a dare all’altro.
Strada che Cura
L’antropologa Margaret Mead dice che la civiltà nasce quando un uomo inizia a prendersi cura di un altro. Se questo è vero, Gino Strada ha dimostrato che un modello per esportare la democrazia esiste, ma che più delle armi, ha bisogno del coraggio.
Il coraggio di andare in guerra o in posti dove la sopravvivenza è un gesto rivoluzionario, dove i bambini sono abituati alle tragedie e sorridono nonostante i moncherini alle gambe, nonostante vivano nel buio, nonostante non possano più correre o tornare a casa, abbracciare la madre o la sorella.
Il coraggio, invece, di chi resta ad aspettare, di chi non riceve notizie per mesi: il coraggio di una figlia che perde il padre e lo ritrova, osservandolo in una sala operatoria, per accorgersi di non averlo perso mai.
Non c’è coraggio, senza amore.
E allora Gino Strada che fa? Avvicina la lente, e racconta il punto di vista di chi la guerra la vive da dentro e molto spesso in differita: quando i riflettori si spengono e rimangono i cocci da raccogliere, quando il combattimento è finito, ma di certo non la fame o la sofferenza. Quando le truppe lasciano il paese, lasciando dietro di loro una scia di detriti, macerie e morte.
In Pappagalli Verdi, il cognome di Gino si fa materia, si fa “fatto”, si fa res. Strada per trovare un modo, strada che permette il dialogo, strada che unisce, che si apre, piena di sassi, di buche, di pericoli, ma strada che ti porta a casa. Lì, in quei paesi talmente poveri in cui bisogna scegliere se operarsi e vivere, o morire e permettere ai propri nipoti di continuare a studiare, in quei luoghi dove ne uccide più la mancanza d’umanità che la povertà.
E ci si chiede, nel corso del libro, quanto ci si può spingere per salvare una vita umana? Quand’è che non ne vale più la pena, quando sarebbe meglio lasciar correr, lasciar morire?
È una domanda che sorge spontanea in diversi punti del libro, e alla fine è sempre Strada a rispondere: sempre.
Anche quando non c’è più speranza, vale sempre la pena.
Edda Guerra