Religione e femminismo possono convivere?
È quanto chiede (e si chiede) Michela Murgia nel suo God save the Queer – Catechismo Femminista, edito Giulio Einaudi Editore: un quesito che, con un approccio costruttivista filtrato dall’esperienza, accompagna le 152 pagine del saggio.
Catechismo Femminista di Murgia
Le interconnessioni e le influenze tra religione e pensiero femminista ovunque, e non soltanto nei paesi a maggioranza cattolica, generano conseguenze, non di rado conflittuali. Basti pensare ai paesi del Medio Oriente dove l’emancipazione femminile deve necessariamente passare per la destituzione o per la ricerca di un compromesso con le forze politiche locali e le loro arbitrarie interpretazioni del Corano. Ecco, in quel caso, quello che altrove è un conflitto privato, da esaurirsi nella sfera personale, diventa questione di genere appartenente ad un intero popolo e le discussioni, per quanto condotte tra i bisbigli delle case e le urla nei palazzi distrutti e nascosti delle scuole, assurgono a diventare voce di piazza e voce di popolo.
Ma non è il caso di Murgia e del suo catechismo femminista. Non c’è, qui, rivendicazione partitica o desiderio di liberazione di una classe sociale. C’è un dialogo che una donna credente conduce con la sua coscienza e la sua intelligenza, entrambe evidentemente sottoposte al vaglio della ragione che si interroga su come sia possibile coniugare il desiderio di emancipazione culturale delle donne insieme ad un sistema religioso e una narrazione maschilista esistenti da secoli e che, da secoli, impongono agli uomini e alle donne chiari codici di condotta, descrivendo, per gli uni e per le altre, ruoli, diritti e doveri.
Nominare è escludere
“Nominare è escludere” lo dice Chiara Valerio e lo riprende Michela Murgia nel suo God Save the Queer. Il linguaggio non è inclusivo: un nome determina un’esistenza e, facendolo, ne esclude altre. Da qui, il punto di partenza del Catechismo Femminista. Se il linguaggio è di per sé esclusivo, è chiaro che è poi il suo utilizzo a trasformarlo in strumento di condivisione o di contraddizione.
Questa, la chiave di volta del saggio di Murgia: la narrazione, la comunicazione, il piano marketing che la religione cattolica ha fatto suo per millenni scegliendo come consumatore finale l’uomo e costruendo, quindi, una narrazione in cui l’uomo potesse riconoscersi e a cui la donna potesse (solo) appoggiarsi.
E dunque se si tratta di interpretazioni, se il quid della questione sono ancora una volta le parole (quelle dette, quelle scritte e quelle ascoltate) e la loro decodificazione, non c’è alcuna differenza tra religione cattolica e religione islamica, ad esempio, dai più ortodossi presa come esempio tout court di negazione di libertà alle donne e il saggio di Murgia, per quanto incentrato su un’esperienza personale e dunque cucito addosso a quegli accadimenti e a quel sistema di simboli culturali, diventa modello paradigmatico utilizzabile ai quattro angoli del mondo.
Accettato l’assunto che è l’uomo, non Dio, ad aver imposto una visione fallocentrica della religione con la sua invasiva opera di esegesi delle Sacre Scritture, ecco che crolla tutto l’impianto fondativo delle religioni fatte a immagine e somiglianza di un Dio maschio.
È l’uomo ad essersi appropriato del racconto della religione, ma la sua forza pervasiva non ha raggiunto e compreso il sentimento religioso, l’esperienza del tutto personale del Credo. Ed è in questa crepa della logica e del sentire che Murgia si inserisce con il suo ultimo saggio, concorrendo alla pacificazione tra sentire religioso e sentire culturale, politico.
Due dimensioni non necessariamente in conflitto ma che, anzi, possono riconoscersi e rigenerarsi.
Edda Guerra