Massimo Canevacci, credits Mar Dei Sargassi Edizioni
Con la sua ultima pubblicazione, “Stupore indigeno”, Massimo Canevacci ci accompagna in posti incontaminati del Brasile, per incontrare le culture dei Bororo, Xavante e Krahô, alla scoperta dei loro usi e costumi. Il libro, uscito lo scorso 14 marzo per la casa editrice Mar dei Sargassi, è un racconto dei diversi soggiorni dell’autore presso le popolazioni indigene, ma è anche un omaggio alle personalità incontrate, a quelli che sono diventati dei veri e propri amici, alle storie di Domingos, Sergio, Kleber, Felix e del mestre José Carlos Kuguri.
Un insieme di ricordi misti a riflessioni e impressioni personali che crea un tessuto narrativo in grado di azzerare le distanze spazio-temporali, creando un presente immortale. Una lettura emozionante e a tratti spiazzante che invita a riflettere su concetti complessi come quello di libertà, e che suggerisce una rilettura della storia da una prospettiva diversa da quella eurocentrista.
Incontro con l’autore
Massimo Canevacci è docente di Antropologia Culturale presso l’Università di Roma La Sapienza, dove attualmente insegna come professore emerito, ed è stato professore ospite in molte università estere. In “Stupore indigeno” Canevacci affronta una serie di concetti interessanti, alcuni dei quali abbiamo avuto modo di approfondire in prima persona.
Nel libro si sofferma a più riprese sulla definizione di “stupore”, da cui anche il titolo. “Lo stupore è come l’immaginazione per Adorno: è esatto” e lo definisce come segue: “Lo stupore è l’attimo prima. Aspettare con calma e frenesia quel momento che può arrivare, che sta arrivando, che è arrivato, in cui una persona, un evento, un oggetto imprevisto quanto atteso ci si presenta di fronte”.
“Una delle questioni fondamentali per la ricerca sul campo e anche per la vita quotidiana urbana è la questione del diverso, sia straniero che familiare, cioè esterno ma anche interno. Spesso ci si chiude in difesa delle proprie certezze, per relazionarci solo a persone affini a quella pensiamo essere la “nostra” identità. Lo stupore in antropologia è una sorta di allenamento a ricercare persone o cose, persino eventi o rituali, del tutto diversi dalle mie personali abitudini: e posso dire che questa attesa si accelera e si blocca, appunto, nell’attimo prima, quando si percepisce che si sta per avere un incontro fuori dalle norme. Questo momento è fonte di un desiderio quasi radicale di trovarsi di fronte alla meraviglia dello sconosciuto, di ciò che è ignoto e che pur desideriamo incontrare. In questo momento la mia corporalità diventa porosa, cioè disponibile a farsi attraversare dall’alterità. E così mi dispongo verso il mutamento attraverso la mia porosità stupita”.
Dinanzi all’incontro con l’ignoto, con lo sconosciuto, lo stupore assume quindi un valore conoscitivo, gnoseologico? E in che misura lo stupore ha guidato la sua conoscenza del mondo indigeno?
“Esattamente così! la conoscenza non è data solo dallo studio, leggere libri, visitare monumenti o riflettere sulla logica o la scienza. Per me è una sorta di passaggio dal sapere, che ha questa componente fondamentale classica, alla sapienza che include anche emozioni, passioni, angosce, improvvisazioni, risentimenti ecc. Quando mi sono trovato nella mia prima esperienza in un villaggio Xavante in Mato Grosso, al centro del Brasile, sono stato coinvolto in un saluto rituale del mio caro amico Domingos Mahoro’e’o di fronte a diversi guerrieri tutti col corpo dipinto di rosso (urucum, un seme che diviene una specie di saponetta con cui si tinge la pelle). Era notte e alcuni fuochi illuminavano la scena. Fu allora che iniziarono a danzare e cantare in circolo con un ritmo forte, ripetuto, strusciando i piedi al suolo, allora mi presero per le mani e dovetti imparare a roteare danzando con loro. Fu uno stupore incredibile, un senso di felicità difficile persino da spiegare, sentirsi diverso e in sintonia con l’altro, non solo accettato quanto desiderato. Non dimenticherò mai quel momento: è l’incontro con l’altro”.
Credits: Mar Dei Sargassi Edizioni
All’inizio della narrazione definisce la sua una “indisciplina metodologica basata sulla spontaneità e lo stupore”, un tipo di scrittura che va oltre la classica metodologia della disciplina: il parlare orale che si fonda con la scrittura digitale. Ha ritrovato quest’unione tra oralità e digitalizzazione anche nelle popolazioni di cui parla? E in che modo queste si sono servite della digitalizzazione nel loro quotidiano?
“Bella domanda. Ho sempre “sentito” la spontaneità come un momento creativo e irregolare, non predeterminato anche se – come per l’improvvisazione jazz di Coltrane – è parte della propria visione, una visione non ancora codificata che, nel momento specifico, riesce a offrire sensazioni cognitive, estetiche, performatiche di grande ricchezza. Ora un metodo basato su spontaneità e stupore sembra assurdo, una sorta di paradosso tipo ossimoro. Eppure, se diamo a questo metodo il senso temporaneo, cioè non riproducibile, che vive e funziona in quel momento e in quel posto: ecco questa esperienza di ricerca mi appartiene e cerco di affidarla anche ai miei studenti. Invece per il nesso oralità-digitale la mia scoperta (oltre che stupita) è stata decisiva. Con orgoglio ho partecipato alla costituzione della Aldeia Digital, in quanto diverse culture indigene in Brasile e non solo hanno delle lontananze incredibili, difficili da essere superate normalmente. Invece con il digitale queste culture indigene sono in connessione, possono decidere obiettivi di lotta o di manifestazioni, elaborare progetti ecc. Infine, sono in contatto anche giornalmente con i miei amici Xavante e Bororo via Wapp, e-mail, social network. A volte sono stati determinanti per affrontare situazioni anche drammatiche. Vivere in connessione analogico-digitale è una ricchezza che va gestita ovviamente secondo i propri valori, tempi e spazi, non imposta dall’alto“.
Parlando e ricordando del suo amico Sergio, riflette sui concetti di anarchia e libertà. Secondo lei qual è la principale differenza tra la concezione occidentale di anarchia e la condizione delle civiltà indigene? Si possono stabilire dei confini alla libertà?
“Altra bella domanda. Molte culture precolombiane (brutto termine ma per capirci) erano società senza-stato. Specie in quello che diventerà Brasile tutte le culture vivevano in questo modo, decentrato e nomadico, villaggi che venivano abbandonati dopo un certo tempo in relazione allo sfruttamento della terra. Quelli che chiamiamo leader e che furono definiti cacique, espressione spagnola, hanno un ruolo molto diverso da quello occidentale. È temporaneo, non ha un potere assoluto né tantomeno unico, si gestisce la vita in comune con gli altri anziani; mentre un’autorità autorevole (non autoritaria) è del paijé ovvero lo shamano che ha le capacità di viaggiare nei mondi sacri dove tutti gli esseri convivono, umani, animali, vegetali, minerali e divini. A lui è dato il potere di alcune piante, è anche un medicine-man, come si dice, usa la sapienza della fitoterapia. Ha anche il potere del prevedere il futuro. Ultimamente il ruolo di cacique è gestito anche da donne, mentre il paijé vive una situazione difficile per tanti motivi. In ogni caso, quel potere politico che fonda l’arché nel suo significato storico non esiste. Pur tuttavia è un problema la mobilitazione di tutti i villaggi quando i fazendeiros (latifondisti senza scrupoli) cercano di penetrare nei loro confini o riserve (altra brutta parola). Sergio è stato ed è per sempre il simbolo di una amicizia irregolare, senza vincoli di potere, dedita al piacere e alla conoscenza”.
Nel suo racconto riversa anche molte riflessioni personali, nonché impressioni ed emozioni provate sul momento. Mi è sembrato di percepire che uno degli eventi, o meglio dei riti, che maggiormente la hanno colpita sia stato il funerale Bororo. Potrebbe descriverci le emozioni provate nell’assistere ad un rito di tale importanza e quali conseguenze e/o cambiamenti ha comportato nella sua persona?
“Questo aspetto è determinante per una nuova antropologia. Le emozioni non possono essere eliminate oppure incanalate nei diari segreti alla Malinowski, pur grande antropologo. Vivere e quindi scrivere in soggettiva è una sorta di rivoluzione epistemologica, nel senso per lo statuto delle scienze umane e sociali. Ho scelto di narrare queste emozioni complesse certamente per il Funerale Bororo, un rito che starà per sempre dentro di me con tutte le sue accese sensazioni corporee e mentali. In particolare, indimenticabile anche in questo momento è il ricordo del mio caro, carissimo amico José Carlos Kuguri, il mestre dos cantos Bororo, che mi accolse con sospetto le prime volte e poi siamo divenuti amici in un senso molto… diverso da come sono le mie amicizie diciamo “normali”. Pochissime parole, molti gesti, sguardi penetranti e dolci, invito a mangiare, starsi vicino in certi momenti. Lui conosceva a memoria tutti i complessi canti rituali Bororo, persona veramente straordinaria. E quando è morto ho partecipato al suo funerale, altra emozione indimenticabile e che non posso spiegare in questa intervista, chi vuole può leggere il libro. Il momento estremo è stato quando ho abbracciato il suo teschio, trasfigurato in un essere sacro, dipinto di urucum e con piume e penne attaccate, racchiuso parzialmente in una semplice stuoia, il teschio mitico e sacro di José Carlos tra le mie braccia, la mia testa vicina a lui ed io piangendo incontrollato”.
Stupore indigeno
Negli ultimi anni il Brasile sta affrontando dei cambiamenti radicali in ambito politico: dall’annientamento della libertà e lo sterminio delle popolazioni indigene per il Covid sotto Bolsonaro, ad un nuovo vento di libertà con Luiz Inacio Lula da Silva, per la terza volta presidente dopo essere stato incarcerato quattro anni fa dal governo Bolsonaro.
In questo contesto e a seguito di notizie tragiche riguardanti i suoi amici nelle terre lontane del Brasile, Massimo Canevacci ricorda e al contempo riflette sui suoi soggiorni tra le popolazioni indigene. Dal confronto del mondo indigeno del tempo dei suoi viaggi con quello di oggi e, consapevole dei cambiamenti in corso, l’autore si chiede se sarà mai possibile tornare a quel «“mio” Brasile sincretico e polifonico».
Nel corso dei diversi soggiorni presso le civiltà indigene come i Bororo, gli Xavante e i Krahô, l’autore fa esperienza diretta di quella che è la vita tra le comunità che la cultura dominante definisce “primitive”, partecipando in prima persona ai riti locali, come ad esempio il toccante funerale Bororo, e vivendo a stretto contatto con loro. Si rende così conto che si tratta di civiltà che combattono ormai fin dai tempi in cui i conquistadores ne hanno invaso e ridotto drasticamente i territori contro chi continua a voler imporre la propria presunta supremazia: missionari e latifondisti prima, governo Bolsonaro poi.
Per secoli l’Eurocentrismo, ovvero la tendenza a leggere la storia da un punto di vista per il quale l’Europa, centro politico, economico e culturale, gode di un’implicita superiorità rispetto alle culture o civiltà etichettate come primitive o incivili, è stato alla base dei pregiudizi verso le numerose popolazioni native del Brasile. In nome di tale superiorità si è cercato fin da sempre di privare tali persone della propria identità o di relegarle in musei viventi e immutabili. Nonostante le continue pressioni, questi gruppi di persone, sempre più ristretti, continuano a rivendicare i propri spazi di libertà: come all’epoca della conquista delle Americhe si sono rifiutati di piegarsi agli europei che hanno tentato di violare le proprie libertà rendendoli schiavi, così oggi, a più di 500 anni, continuano le pratiche e riti locali, pur tuttavia accettando il confronto con il nuovo, la digitalizzazione, per continuare a esistere e resistere ancora oggi. La libertà, nel significato più puro del termine è sacra e indomabile, e va oltre i confini culturali che l’eurocentrismo ha imposto per secoli.
Sono sempre più convinto che le pratiche di libertà portate avanti dalle popolazioni indigene coinvolgano oltre loro stessi e la nazione brasiliana, anche il mio essere europeo, italiano, romano. Anzi, direi che nessuna persona può dichiararsi libera finché queste popolazioni non avranno pienamente riconosciuti i diritti costituzionali nella loro vita quotidiana.
Grazie, muito obrigado. Massimo