«Il Muro ci difende, ma ci separa. Ci nasconde, ma lo usiamo per esprimerci. Ci protegge, ma lo vogliamo scavalcare. Unisce dividendo. Cela rivelandosi.»
A Bologna, the WALL Exhibition. Il Muro diventa protagonista della nuova mostra inaugurata il 24 novembre 2017 e che si protrarrà nelle stanze di Palazzo Belloni (Via Barberia, 19) fino al 6 maggio 2018. Dopo la Bologna Experience, un nuovo percorso interattivo, multimediale che mischia arte, esperienza sensoriale ed empatia emotiva. Per conoscere, percepire e riflettere.
Ambigua vox media, nel bene e nel male, il muro si innalza sfidando il tempo e la storia: come un recinto sicuro per delimitare confini, una barriera per proteggere o, allo stesso tempo, come un infimo tabù per emarginare, una stupida ignoranza per non comprendere. Mutevole e insidioso, era necessario che il Muro fosse spiegato. In ogni sua forma. Indispensabile durante il percorso una mappa per districarsi meglio. Concettuale, intuitiva. E rivelata, di volta in volta, da una luce che scopre solo le parole attinenti alla specifica tappa della mostra.
Si comincia dall’antichità: cave, grotte e tumuli. Che diventano templi megalitici e poi rovine nel tempo, come nel caso dei siti archeologici di Sechin Bajo e di Mohenjo- Daro in Pakistan. Muri che diventano archetipo di civiltà, case e luoghi di culto, simboli del divino e del genio umano.
Sempre la storia insegna anche l’altra faccia della medaglia: quella della brutalità, quella della paura e della guerra. Si ricorda la linea Sigfrido, la linea fortificata tedesca costruita ai tempi del primo scontro mondiale. Continua la strategia bellica, la difensiva italiana del Vallo Alpino del Littorio voluta da Mussolini durante il ventennio fascista. Seguono inevitabilmente le visibili conseguenze: la diffida nei confronti dell’altro e di chiunque non abbia la propria nazionalità. Nascono i muri della vergogna, quelli che dovevano distinguere e preservare: il Muro di Berlino, il più noto, ma ancor prima il Muro di Gorizia, recinzione in calcestruzzo nata nel 1947 che definiva il confine italo-jugoslavo e che solcava a metà la città.
Fin dalla preistoria, d’altronde, le pareti sono sinonimo di superficie d’espressione per schizzi, segni, scritte, graffiti. I muri sono da sempre tabula rasa per parole non ancora dette o che devono essere ricordate. Proprio come le parole, danno forma ad un concetto, ad un’idea e, proprio come le parole, possono essere amabili quanto pugni nello stomaco.
«E di parole sono pieni i muri delle nostre città. Le abbiamo tolte da questi muri e le abbiamo messe in un libro.»
Impronte primitive nelle grotte, disegni e graffiti a partire dal boom della cosiddetta street art nella New York degli anni sessanta, stencil, fino ai post e ai tag sulle attuali piattaforme virtuali che altro non sono che bacheche di pensiero, più o meno esasperate.
«Admiror, paries, te non cecidisse ruinis
qui tot scriptorum taedia sustineas.»
(Mi meraviglio, o muro, che tu non sia ancora caduto in rovina avendo dovuto sopportare tante noiose baggianate scritte su di te.)
Un’echeggiante sentenza che ritorna su diversi muri di Pompei, come ad esempio sulle pareti dell’Anfiteatro e della Basilica. Ad oggi, come non essere d’accordo?
Immancabile la sezione dedicata all’undicesimo album dei Pink Floyd, The Wall, sulla scia dello spettacolare The Wall Tour (1980-1981), quando durante il concerto venivano proiettati i cartoni creati da Gerald Scarfe, truci e senza scampo. Ancor meno indimenticabile, il muro di polistirolo innalzato per dividere il gruppo dal pubblico e che, solo alla fine dello spettacolo, veniva fatto crollare. Nella trasposizione cinematografica (Pink Floyd The Wall del 1982) se ne comprende il significato: è un muro di chiusura al mondo, di eremitica fuga nella propria follia e che, inevitabilmente, solo da una sentenzia giudiziaria collettiva (ed esterna!) verrà buttato giù.
E da un muro psicologico creato consapevolmente per isolarsi dalla realtà circostante, se ne passa ad un altro costruito ad hoc dal giudizio altrui, quello fatto per allontanare chi, colpevole per legge, non può più far parte della civiltà: le prigioni. In esposizione quelle d’invenzione di Giambattista Piranesi: messe a punto a partire dal 1745, d’ispirazione kafkiana e mitologica, con attenzione ai particolari e alla disposizione degli spazi, brulicanti di labirinti e scale. E a differenza del fatale gioco del re Minosse, le vie di fuga sono diverse e ben visibili.
Sono presenti, in itinere, simpatiche interazioni con il visitatore: muri da riempire e su cui scrivere, cabine in cui entrare, scatoloni da capovolgere, canzoni da ricordare, un corridoio di solleticanti villi, bronzi in fieri. La mostra prevede anche le opere di Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Uncini, Matteo Pugliese, Mimmo Rotella, Lucio Fontana, Hitomi Sato, Christo. Un progetto imperdibile della Loop srl, a cura di Con-fine Art e Claudio Mazzanti, che nasce dalla storia e, nella storia, fa il suo corso.
Da ideologie, pregiudizi, coscienza ed arte, il muro psicologico, sociale, politico, espressivo.
Se solo ne avessimo consapevolezza, vecchie ferite mai rimarginate potrebbero smettere di sanguinare, delle cicatrici si farebbero monumenti eterni e l’aridità circostante tornerebbe terra fertile.
Pamela Valerio