Don't look up
Don't look up - Locandina

“Don’t Look Up” potrebbe aprirsi con la stessa citazione (dei Talking Heads) che da inizio ad “American Psycho”, il romanzo del 1991 di Bret Easton Ellis: “and as things fell apart/nobody paid much attention”. E mentre il mondo andava a rotoli, nessuno ci faceva caso. Se il romanzo di Ellis impacchetta l’America reganiana degli anni ‘80 con tutti i suoi contorni (gli yuppie, Wall street, il feticismo del successo e del corpo) in una satira violentissima, “Don’t Look Up” di McKay prova a fare lo stesso con quella di oggi. E mentre il serial killer Patrick Bateman in “American Psycho” macella vittime ignare pensando al prossimo vestito elegante da sfoggiare in un ristorante alla moda, citando Donald Trump come modello di vita e senza che nessuno, proprio nessuno gli dia la caccia o si interessi delle tantissime vittime, in “Don’t Look Up” il modello della satira sembra sempre (l’amministrazione) Trump e un disinteresse generale verso il destino dell’umanità intera: la presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) di cui non sapremo mai l’appartenenza politica – ma di cui riconosciamo la megalomania e l’incompetenza – piazza suo figlio Jason come capo di gabinetto, e un’ex estetista alla testa della NASA. L’omofobia e il razzismo di un vecchio generale non sono davvero omofobia e razzismo ma idee di un uomo all’antica molto simpatico. L’idea che una cometa possa causare un’estinzione di massa entro sei mesi non la tocca minimamente, ma diventa utile quando si può usare per soffocare uno scandalo personale o aumentare punti nei sondaggi. E via di questo passo.

L’idea paranoica alla base di “Don’t Look Up” è analoga a una serie infinita di film catastrofici, genere di cui Hollywood è non a caso esperta: la studentessa Kate Dibiasky (Lawrence) scopre un’enorme cometa, il suo professore Randall Mindy (Di Caprio) calcola che entro sei mesi il corpo celeste impatterà sulla terra uccidendo tutti gli esseri viventi. I due cercano di farsi ascoltare in ogni modo dalla politica e dalla gente comune. Il risultato è che prima vengono compressi nel tritacarne mediatico e politico, poi ne sono sedotti, mangiati e infine risputati fuori come macinato. Le sequenze di nevrosi concitata in cui due scienziati urlano in tv per farsi ascoltare – per poi diventare inevitabilmente dei meme – fanno ridere, ma angosciano. Angosciano perché i paralleli col covid o la crisi climatica (il paragone più appropriato) sono sotto gli occhi di molti, ma a sgomentare è il collasso cognitivo di chi non ha interesse per i dati incontrovertibili valutati da esperti – o per chi cerca di trarre profitto persino dalla fine del mondo, con un intreccio perverso tra politici, scienziati, media e multinazionali.

C’è un altro luogo comune ribadito in “Don’t Look Up” che in questi anni ritroviamo ovunque, tra cinema e letteratura (“Zero K” di De Lillo in primis con l’idea della criogenesi): l’apocalisse è roba per gente comune, non per i ricchi. I ricchi hanno il futuro in palmo di mano e per loro nulla è impossibile. Le divertenti sequenze post titoli di coda sono le più esagerate del film: rappresentano una iperbole dell’ossessione attribuita al capitalismo verso la morte, un eden grottesco dove ricominciare la vita eterna – e con quali basi?
Sono questi momenti di satira grottesca ed esagerata i punti in cui la scrittura di McKay fa centro, perché è pur sempre uno che viene dal Saturday Night Live: e si vede. Quando tratta di personaggi miserevolmente umani (i protagonisti: gente comune, poco carismatica, con problemi di depressione o solitudine) il tono spesso si sfalda; non c’è mai un contatto davvero empatico con questi personaggi – forse con nessuno dei personaggi – se non forse per la performance di un Di Caprio che da al suo personaggio una fragilità più “profonda”, che in realtà non sembra avere nello stereotipo bidimensionale in cui la sceneggiatura lo relega assieme a molti altri (il suo rapporto con la moglie ha un arco narrativo tremendo e telefonatissimo). Ma molte scene prese singolarmente sono divertenti, funzionano appieno: perché sono degli sketch intelligenti. Il grande pregio di McKay resta – e resterà – l’enorme limite del suo cinema. Sul piano registico invece imprime al film un ritmo frenetico, pieno di interruzioni, spiegazioni e sequenze che cercano di stordire lo spettatore: una cifra stilistica che qui raggiunge un equilibrio gradevole, a differenza di “Vice” del 2018. La differenza è spiegata già nella tagline del film, che dichiara di ispirarsi a una storia vera mai accaduta ma che, si capisce, potrebbe accadere e già sta accadendo. È un cambio di rotta importante per il cinema di McKay degli ultimi anni: “La grande scommessa”(2015) spiegava la crisi finanziaria del biennio 2007-2008 educando il pubblico alle motivazioni dietro la bolla speculativa e il modo in cui investitori, manager e agenzie di rating ne approfittarono o ne vennero travolti. “Vice” (2018) rileggeva l’amministrazione Bush cogliendo in Dick Cheney il grande manovratore occulto, col suo silenzio insistito, un cuore fragilissimo come metafora di un ingranaggio corrotto e sempre più grosso, con gente rapace pronta ad approfittarne così da perseguire ricchezza e potere. Erano ricostruzioni che calcavano un linguaggio documentaristico alla Michael Moore, con intenti si potrebbe dire addirittura pedagogici, metafore facili, paralleli letterari ingombranti (addirittura Shakespeare). In “Don’t Look Up” non ci sono fatti storici su cui basarsi e la satira può essere più libera: la realtà è sempre l’oggetto da distorcere, e neanche si deve faticare così tanto – abbiamo ancora impresso nella memoria l’incredibile Tiger King – ma i temi sono sempre quelli. Avidità, stupidità, potere, armi di distrazione di massa, personaggi in cui è possibile ravvisare parodie (il magnate Peter Isherwell è un misto tra Musk e Bezos?), la società statunitense denudata e derisa come un carrozzone avviato verso il baratro: c’è tutto quello che serve per una commedia a conti fatti divertente, mai davvero originale ma che pur arrivando con qualche anno di ritardo arriva in qualche modo sempre nel momento giusto. “Don’t Look Up” non sarà livelli de “La grande scommessa” ma per fortuna rispetto a “Vice” il regista ha avuto il buon gusto di farsi un po’ da parte e di lasciar respirare il film.

Nicola Laurenza

Nato nel 1991, studia e si interessa di letteratura e cinema. Vive (o ci prova) tra Campania e Lazio.

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