In principio – era il 1868 – fu Andrew Johnson; 130 anni dopo, nel 1998, toccò a Bill Clinton. Richard Nixon, in pieno ciclone Watergate, si era dimesso prima di subire l’avvio del procedimento: l’anno era il 1974. Ora è il turno di Donald Trump. Queste sono le illustri vittime dell’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti d’America, l’ultima risorsa che il sistema costituzionale USA affida alle Camere legislative per contrastare crimini o abusi di potere del titolare dell’esecutivo, ristabilendo, quando serve, giustizia e democrazia.
L’impeachment nella Costituzione USA
Almeno così dovrebbe essere in linea di principio, visto che in realtà nessun presidente degli Stati Uniti è mai stato rimosso per diretta conseguenza di una procedura di impeachment: questo dato storico, che rischia di confermarsi anche nel caso di Trump, qualifica la messa in stato d’accusa come uno strumento di dubbia efficacia “reale”, nonostante la sua disciplina si trovi nei primi articoli e punti della Costituzione americana, in posizione di assoluta preminenza.
È proprio una serie di disposizioni tra l’articolo 1 e 2 della Carta degli Stati Uniti del 1787, infatti, che disciplina l’istituto dell’impeachment. Lo strumento, già conosciuto e adoperato nella monarchia inglese del Settecento, fu trasposto nella Costituzione dai Padri della Patria americani allo scopo di bilanciare il potere particolarmente ampio del presidente. Questo, considerate le sue numerose e complesse attribuzioni esecutive, nonché la possibilità di imporre il veto ai provvedimenti elaborati dalle Camere, somigliava a un vero e proprio “monarca repubblicano”.
Il Documento del 1787 in sintesi illustra l’impeachment come la prima fase di una complessa procedura parlamentare a carattere bicamerale, che coinvolge cioè sia la Camera dei Rappresentanti che il Senato. Individuati alcuni capi d’accusa, è la Camera per prima che li formalizza all’interno di un vero e proprio atto, l’impeachment appunto, sottoposto a una votazione a maggioranza semplice.
Dopodiché, la palla passa al Senato, che istruisce una sorta di processo nei confronti del presidente, terminando le operazioni con una nuova votazione: stavolta, però, la maggioranza richiesta per applicare le conseguenze del giudizio, principalmente la rimozione del presidente dall’ufficio e altre sanzioni accessorie, è altamente qualificata, nell’ordine dei due terzi dei membri.
1868: il caso Johnson
La procedura in sé non è particolarmente macchinosa, ma è ad alto coefficiente di “politicizzazione”: vale a dire che la Camera e soprattutto il Senato devono avere un alto interesse politico a insistere nell’impeachment, per potersi verificare l’effetto immediato della messa in stato d’accusa, ovvero la rimozione del vertice dell’esecutivo. Il fatto che non sia sempre facile che, al Senato in particolar modo, si concretizzi una maggioranza di due terzi favorevole all’impeachement, spiega perché nella storia degli USA nessuno dei due precedenti si sia risolto a sfavore del presidente coinvolto.
Si prenda ad esempio il caso di Andrew Johnson. Dopo l’assassinio di Lincoln, ormai alla fine della guerra civile, questo repubblicano unionista (ma suprematista bianco) succedette automaticamente al defunto eroe della liberazione degli schiavi americani, in quanto vicepresidente. Ben presto, però, le sue tendenze segregazioniste emersero con violenza e prepotenza e infine, nel 1868, si dovette arrivare alla conclusione che la sua presenza in carica dovesse risultare ben scomoda per gli Stati Uniti già dilaniati dal conflitto civile.
Così, per gli ostacoli posti da Johnson al progresso sui diritti civili e verso la pacificazione del Paese, la Camera votò per l’impeachment. Il pretesto fu la rimozione da parte di Johnson, considerata illegale, del ministro della Guerra Stanton. Senonché, arrivato al Senato, il procedimento si arenò: Johnson fu salvato da un solo voto (di un senatore forse corrotto), così della sua rimozione non si fece nulla e il discusso presidente poté terminare il mandato. Prima di morire, nel 1875, riuscì a farsi eleggere persino senatore, tornando di nuovo nelle stanze del potere che per poco non gli erano state fatali.
1974: Nixon, il Watergate e l’impeachment mancato
Quando le talpe all’hotel Watergate rivelarono lo scandalo delle microspie piazzate su ordine del presidente Nixon nelle stanze del prestigioso albergo di Washington D.C. occupate dagli attivisti democratici, lo scandalo stava per travolgere il vertice dell’esecutivo. Dopo settimane di suspence, il presidente repubblicano, arrivato alla Casa Bianca dopo una lunga trafila politica non sempre di successo, già avversario perdente di J. F. Kennedy, aveva due alternative: sottoporsi al fuoco di fila della procedura di impeachment, che considerate le dimensioni del caso Watergate prometteva di essergli letale, oppure rassegnare le dimissioni.
Nixon scelse la seconda opzione: si dimise il 9 agosto del 1974, sotto pressione dei suoi stessi compagni di partito, che evidentemente gli fecero capire che al Senato non ci sarebbe stato alcun “aiutino”, essendo la posizione del presidente piuttosto indifendibile e politicamente sconveniente per il partito.
1998-99: Bill Clinton e lo scandalo a luci rosse
La pubblica ammenda e la gogna mediatica, ma soprattutto il voto favorevole del Senato, impedirono la finalizzazione dell’impeachment di Bill Clinton un anno prima del termine ufficiale del suo secondo mandato. Ammettendo la sua relazione clandestina con Monica Lewinsky in diretta tv, il presidente democratico “fece pace” col popolo americano mentre la Camera alta del Parlamento degli Stati Uniti lo salvava dall’accusa di aver intralciato la giustizia dichiarando il falso (cioè di non aver mai avuto una relazione con la stagista) durante un’audizione giudiziaria per un caso di molestie sessuali nei confronti di un’altra donna.
La cosa curiosa fu che, in quel caso, il Senato era a maggioranza repubblicana, perché le elezioni di mid-term avevano sancito proprio la vittoria dell’opposizione. Dopo il voto favorevole all’impeachment da parte della Camera dei Rappresentanti, dunque, il Senato vide tutti i 45 democratici votare compatti a favore di Clinton, ai quali si aggiunsero i repubblicani che evidentemente ritennero il presidente non meritevole delle aspre conseguenze della messa in stato d’accusa.
2019-2020: che accadrà con Donald Trump?
Considerati i precedenti, la domanda appare più che legittima, ma dalla risposta quasi scontata: con un Senato saldamente in mano ai repubblicani e le nuove elezioni presidenziali praticamente alle porte, è piuttosto improbabile che Trump possa venire silurato dal “suo” partito, accontentando così i democratici capitanati dalla presidente della Camera, Nancy Pelosi.
L’alto indice di conflittualità politica e giuridica generato negli USA dal caso Trump, comunque, è indicato dalla stessa polemica costituzionale, ancora di incerta soluzione, sul fatto che basti o meno il semplice voto della Camera per consentire al Senato di procedere con la valutazione del caso (e con la probabile assoluzione di Trump), o se sia necessaria la trasmissione degli atti tra le due Camere (come ritiene la Pelosi, che non a caso sta facendo ostruzionismo in tal senso).
Ad ogni modo, come la storia degli Stati Uniti sembra insegnare, non ci sono due (impeachments) senza tre (assoluzioni).
Ludovico Maremonti