Dopo mesi di dibattiti e spasmodica attesa, l’impeachment di Donald Trump è diventato realtà. La Camera dei Rappresentanti ha votato a favore della messa in stato di accusa del Presidente per due diversi capi di imputazione. L’esito del voto del ramo del Congresso a maggioranza democratica era stato largamente pronosticato alla vigilia, tanto da apparire quasi scontato.
In effetti, da mesi si sapeva tutto dell’ipotesi di impeachment di Trump, con i potenziali addebiti nei confronti del presidente già ampiamente noti in tutto il mondo. L’affaire Biden, soprattutto, è stato il perno intorno cui è ruotato l’asse della messa in stato d’accusa: si immaginava che sarebbero potute costare caro a Trump le indebite pressioni esercitate nei confronti dell’omologo ucraino, Volodymyr Zelenski, allo scopo di suscitare un’indagine giudiziaria che screditasse l’ex vicepresidente dell’era Obama e suo figlio. Quest’ultimo, Hunter Biden, è membro del consiglio di amministrazione della Burisma, una grande impresa ucraina nel settore del gas.
Tutto ciò doveva avere lo scopo, evidentemente, di infliggere un duro colpo a Biden padre, escludendolo forse dalla corsa alla Casa Bianca del 2020. All’accusa di pressioni indebite e abuso di ufficio per fini privati, poi, ne è stata affiancata un’altra, forse ancor più grave da un punto di vista istituzionale: quella di aver intralciato le indagini delle commissioni parlamentari incaricate di investigare sul caso Biden.
Su queste basi, dunque, si immaginava già che il verdetto alla Camera, incoraggiato dalla presidentessa e democratica di spicco, Nancy Pelosi, avrebbe senz’altro penalizzato Trump. Quello che ancora non si sa, piuttosto, è come andrà a finire questa storia, torbida come tutta la vicenda presidenziale di Trump. Con la messa in stato d’accusa, il tycoon ha coronato un primo mandato iniziato, è bene ricordarlo, tra le polemiche sollevate dall’ambiguo, ma mai chiaramente dimostrato, Russiagate.
Proprio considerata la scarsa presentabilità di fondo del personaggio e politico Trump, l’impeachment è apparso alla lunga come un passaggio annunciato, in uno dei percorsi presidenziali più goffamente frastagliati e politicamente tormentati della storia statunitense. Tuttavia, nemmeno questa volta sembra che il presidente avrà di che risentire eccessivamente degli effetti delle proprie inadeguatezze. Il motivo è molto semplice: al Senato sarà estremamente difficile, se non impossibile, che la messa in stato d’accusa venga approvata.
Dopo le elezioni di midterm, infatti, come accaduto già altre volte, il Congresso si è spaccato a metà: da una parte, la Camera con la sua maggioranza democratica, eletta secondo un criterio proporzionale tra deputati e popolazione; dall’altro, il Senato, espressione dei singoli Stati federati, che è rimasto a maggioranza repubblicana (o, per meglio dire, trumpiana). Poiché le regole costituzionali sulla messa in stato d’accusa del presidente prevedono proprio al Senato una maggioranza blindata per l’approvazione di questo gravissimo atto, se ne può concludere che nella seconda Camera parlamentare statunitense non si raggiungerà mai il quorum deliberativo previsto in almeno il 67% dei voti e, di conseguenza, l’impeachment di Donald Trump non verrà finalizzato.
Peraltro, il voto alla Camera non ha dimostrato “maggioranze bulgare” a favore dei due capi di imputazione formalizzati: il primo è stato approvato con 230 voti a favore e 197 contrari; il secondo con 229 favorevoli e 198 contro. In quest’ultimo caso, un “franco tiratore” democratico ha votato con i repubblicani, non convinto della bontà del secondo addebito formulato nei confronti di Trump.
L’impossibilità democratica di scavalcare la resistenza trumpiana al Senato, dunque, rischia di trasformare la vittoria politica del 18 dicembre in una vittoria di Pirro e il sospirato impeachment di Trump in una tempesta “imperfetta”. Per quanto insufficiente a dare una spallata definitiva, la bufera sul presidente, politica e mediatica, c’è stata ed è stata innegabile: basti pensare all’impegno dei social media e degli svariati manifestanti che, in tutto il Paese, hanno utilizzato il provocatorio hashtag #Merry Impeachmas per celebrare il procedimento intervenuto proprio a ridosso delle feste natalizie.
Il compattamento del popolo democratico, in fondo, è stato significativo; tuttavia, potrà ben darsi che, da qui a gennaio, quando è atteso il voto del Senato, l’unico effetto concreto e tangibile dell’impeachment di Trump sarà stato appunto quello di aver unito l’ambiente democratico, che ancora non sembra aver deciso, peraltro, su quale candidato puntare per la decisiva elezione presidenziale del 2020.
Tra le fila di Trump, intanto, la vita sembra scorrere quasi ordinaria: fonti della CNN raccontano di un presidente di certo turbato, che ha espresso la propria rabbia ai collaboratori, ma che tutto sommato nemmeno il giorno del voto alla Camera ha cambiato l’agenda degli impegni. Nelle stesse ore in cui veniva formalmente imputato, Trump era infatti impegnato nell’ennesimo evento natalizio a sfondo elettorale. Il tycoon ha affidato una reazione urlata e un po’ scomposta al consueto post su Twitter, in cui ha accusato la vergogna per la democrazia americana costituita dalla messa in stato d’accusa e il tentativo di “colpo di Stato” attuato dai democratici “fannulloni”.
Se però anche i mercati finanziari hanno deciso di non reagire alla notizia dell’impeachment di Donald Trump è perché, appunto, conseguenze a lungo termine per ora non se ne vedono. Il presidente resta l’uomo di punta del partito repubblicano anche per il 2020, considerato che non ci sono alternative di spessore. Non è ancora il momento, come scrive Federico Rampini su Repubblica, di riprendere il filo dell’onorevole tradizione politica repubblicana, fatta di grandi personaggi, da Lincoln a Theodore Roosevelt, o almeno di figure come Reagan e Bush senior (questi ultimi, pur con le loro deficienze, dotati di un aplomb personale e istituzionale incomparabile con lo stile volgare di Trump).
Nonostante tutto, infatti, Trump riesce ancora a catalizzare l’intero fronte repubblicano e, almeno per ora, è una figura non sostituibile. Forte di questa supremazia de facto, il presidente non pensa certo di ripercorrere le orme delle poche “vittime” di impeachment del passato. Senza scomodare l’ottocentesco Andrew Johnson, il tycoon non ritiene né di dover rassegnare dimissioni preventive, come Nixon ai tempi del Watergate, né di dover porgere scuse pubbliche, come fece Clinton per lavare l’onta del sexgate con Monica Lewinski. Sembra probabile, al contrario, che l’impeachment di Donald Trump consentirà all’attuale presidente – padrone della democrazia americana di proseguire dritto per la sua strada, con il rischio minimo di scossoni lungo il percorso.
I democratici dovranno trovare probabilmente un’altra via per intaccare lo zoccolo duro del consenso sovranista e reazionario, che dalla vicenda dell’impeachment più annunciato e prevedibile della storia statunitense non è sembrato particolarmente sconvolto né impressionato.
Ludovico Maremonti