Ronzio, dolore, inchiostro, pelle. Quattro parole che congiunte danno vita al tatuaggio, l’arte del “fai da tela”, per tanti uno spazio esistenziale per approcciarsi alla realtà o alla fantasia. Il termine “tatuaggio” affonda le sue origini nella metà del Settecento e da lontano, precisamente da Tahiti, terra esplorata per la prima volta dal capitano inglese James Cook. Tra i suoi appunti comparve ben presto il termine “Tattow”, creato a partire dal polinesiano “tau-tau”, un’onomatopea che ricordava il rumore prodotto dal picchiettare del legno sull’ago utilizzato per bucare la pelle e crearvi il disegno. Tuttavia la pratica del tatuaggio è di sicuro molto più antica rispetto alla sua scoperta, tanto che alcuni reperti permettono di far comprendere come essa abbia, alle sue spalle, circa 5000 anni di storia.
L’origine antica dell’arte di incidere permanentemente il corpo venne “fisicamente” attestata nel 1991, con il ritrovamento del corpo congelato e perfettamente conservato di un uomo vissuto circa 5300 anni fa; si tratta della Mummia del Similaun, più conosciuta con il nome di Otzi (vissuto nell’età del rame), la quale presenta sulla pelle dei veri e propri tatuaggi ottenuti mediante incisioni su cui fu sfregata della polvere di carbone. Si pensa che le incisioni al tempo venissero praticate a scopo terapeutico e sciamanico per lenire il dolore, data la presenza di degenerazioni ossee corrispondenti alle parti del corpo tatuate. Ciò fa intendere quanto l’arte del tatuaggio andasse (e vada) oltre la questione estetica.
Nel 2018 alcuni studiosi del British Museum hanno pubblicamente dichiarato di aver rinvenuto su due antichissime mummie egizie numerosi tatuaggi realizzati con tecniche rudimentali ma estremamente efficaci. Entrambi i corpi presentano tatuaggi scavati nel derma con un inchiostro ricavato da una sorta di fuliggine.
A differenza delle incisioni analizzate sul corpo di Otzi, che sembrano corrispondere a figure astratte, quelle rinvenute sulle due mummie egizie, rispettivamente un uomo e una donna, risulterebbero più complesse e articolate: sul corpo dell’uomo vi è la raffigurazione di un toro con lunghe corna e di una pecora, per gli egizi simbolo di forza, coraggio e potere; sul corpo della donna una “S” e altri simboli e motivi geometrici, molto simili alle decorazioni degli oggetti cerimoniali rinvenuti assieme alle mummie.
In effetti numerose pitture funerarie dell’antico Egitto mostrano tatuaggi sui corpi delle danzatrici e sulle sacerdotesse di Hathor, dea madre universale e patrona della vita e della morte (in quanto generava il dio sole e allattava Horus). Generalmente donne e uomini utilizzavano il tatuaggio per esprimere il loro stato sociale, ma era anche un modo per mostrare coraggio e mettere in evidenza il proprio lato sensuale. Era inoltre praticato per illustrare le proprie conoscenze in merito ai riti magici che avevano un’estrema importanza, al punto che il termine egizio “magia”, Heka, era anche il nome della divinità che la personificava.
Anche i Celti, popolo che adorava come proprie divinità alcuni animali, erano soliti imprimere sulla propria pelle tori, cinghiali, gatti, uccelli e pesci in segno di devozione. Le donne dei Celtiberi, popolazioni celtiche stanziate nella Penisola Iberica, si tatuavano in volto nel
tentativo di somigliare alla dea Civetta, uno degli aspetti oscuri della dea più diffusi nel neolitico.
Presso gli antichi romani, che credevano fermamente nella purezza del corpo umano, il tatuaggio era invece vietato d adoperato esclusivamente come strumento per marchiare criminali e condannati (il marchio veniva impresso sulla fronte; nacque così la moda della frangia che aveva lo scopo di coprire il segno permanente). Solo successivamente, in seguito alle battaglie con i britannici che portavano tatuaggi come segni distintivi, alcuni soldati romani iniziarono ad ammirare la forza dei nemici tanto quanto i segni che portavano sul corpo, riprendendo così questa tendenza. Fra i primi cristiani era invece diffusa l’usanza di ostentare la propria fede tatuandosi la croce sulla fronte. Nel 787 d.C. Papa Adriano proibì l’uso del tatuaggio, ma in seguito il suo uso venne riabilitato dai crociati, i quali portavano sul corpo il marchio della Croce di Gerusalemme.
In seguito al periodo delle Crociate, la pratica di tatuarsi il corpo sembrò sparire dall’Europa mentre continuava a crescere e svilupparsi in altri continenti. In Africa, ad esempio, dove il popolo egizio lasciò dietro di sé le orme della propria civiltà a cui numerose popolazioni attinsero, il tatuaggio continuò ad essere un rito ampiamente praticato: in effetti per molti popoli di questo continente, e non solo, il tatuaggio era una vera e propria cerimonia che presupponeva una preparazione sia fisica sia mentale.
Era considerato un vero e proprio rito di iniziazione, volto a dimostrare la maturità e il coraggio della persona che doveva innanzitutto dar prova di sopportazione del dolore. In effetti in Nord Africa e in Sud Africa, i tatuaggi tribali servivano come difese magiche contro spiriti maligni e malattie. Per questa ragione i Berberi del Nord Africa e le donne beduine erano tatuati su varie parti del volto e, a volte, intorno al petto e all’ombelico. Ancora oggi il tatuaggio e la scarnificazione, in alcune zone del continente africano, sono pratiche tradizionali ampiamente diffuse.
Ma spostandoci in Oriente non possiamo non fare riferimento al Giappone, territorio in cui la pratica del tatuaggio risale al V secolo a.C. sia a scopo estetico sia a scopo terapeutico. Gli affascinanti tatuaggi orientali che conosciamo oggi nascono in realtà come reazione a una legge dell’Antico Giappone che vietava alle classi sociali più basse di indossare kimoni decorati; gli appartenenti a questi ranghi decisero di portare, nascosti sotto ai vestiti, enormi tatuaggi colorati che coprivano tutto il loro corpo, dal collo a gomiti e ginocchia. Il Governo giapponese, nel 1870, dichiarò illegale tale pratica ritenendola sovversiva ma non riuscendo mai a contrastarla definitivamente. La Yakuza, ovvero la mafia giapponese, adottò l’abitudine di tatuarsi il corpo illegalmente con disegni come la carpa koi, che rappresenta la forza e la perseveranza.
Un’altra curiosità riguarda la Nuova Zelanda, terra conosciuta per il popolo Maori i cui appartenenti firmavano i trattati disegnando la riproduzione dei loro “moko”, i tatuaggi facciali personalizzati. Ancora oggi i “moko” vengono usati come identificazione della famiglia a cui appartiene il loro portatore.
Anche alcune popolazioni indigene delle Isole del Centro e Sud Pacifico usavano il tatuaggio conferendogli un’importantissima valenza culturale e tradizionale: alle ragazze di Tahiti, ad esempio, venivano tatuate le natiche di nero nel momento in cui avveniva il passaggio all’età adulta mentre gli Hawaiani, in momenti di sofferenza, usavano tatuarsi tre punti sulla lingua. In Borneo gli indigeni si tatuavano un occhio all’interno del palmo delle mani come simbolo di guida spirituale e sciamanica che li avrebbe assistiti durante il passaggio nell’aldilà, mentre nelle Isole Samoa era diffusa l’usanza, chiamata “pe’a”, di tatuarsi tutto il corpo in cinque giorni come prova di coraggio e forza interiore; alla fine dei cinque giorni, chi fosse riuscito a sopportare il dolore, sarebbe stato celebrato e onorato con una grande festa.
Nel corso del tempo la pratica del tatuaggio venne nuovamente ripresa nel contesto occidentale, ma solo in seguito a un “adattamento” tribale dovuto alla colonizzazione. Sembra che la prima pratica di incisione permanente attestata in Occidente risalga al 1769, attuata su una donna statunitense: parliamo di Olive Oatmam.
La famiglia Oatman, di fede Mormone, nel 1851 decise di partire alla ricerca della terra promessa. Durante il viaggio i membri finirono nel territorio del’attuale Arizona, dove furono assaliti e sterminati dagli indiani Yavapai. Le uniche superstiti, grazie alle usanze della tribù, furono Olive e sua sorella, che furono schiavizzate. Qualche tempo dopo, le due sorelle vennero vendute ad un’altra tribù, quella dei Mohave: fu garantita loro una vita dignitosa e furono integrate nel gruppo a tal punto che la tribù offrì loro un tatuaggio sul mento che consisteva in tre linee blu, considerato un “lasciapassare” per l’aldilà per la tradizione indigena. In seguito a una grave siccità, la sorella di Olive morì e nel 1856 Olive Oatman fu ricondotta nella sua civiltà.
Passarono ancora degli anni prima che il tatuaggio diventasse pratica e arte diffusa in tutto il mondo. Decisiva fu sicuramente l’invenzione della prima macchinetta elettrica per tatuare nel 1891 dal newyorkese Samuel O’Reilly, che rese obsolete le tecniche utilizzate fino a quel momento, molto più lente ma soprattutto più dolorose.
Attorno agli anni Venti del Novecento il tatuaggio diventa nei Paesi Occidentali un fenomeno che attrae e fa discutere, tanto che i circhi americani iniziano ad assumere centinaia di persone tatuate da capo a piedi come attrazioni per il pubblico. Per oltre cinquant’anni, poi, il tatuaggio diverrà un marchio “scomodo”, utilizzato per indicare minoranze etniche, marinai e malavitosi; la connotazione simbolica indicava in quel periodo arretratezza e disordine mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, il tatuaggio viene riscoperto come ribellione contro la società conformista e “vecchia”; i movimenti punk, i gruppi di motociclisti, le sottoculture giovanili iniziano a tatuarsi come reazione ai precetti morali predicati dalla politica e dalla cultura conservatrice dell’epoca, per niente incline al cambiamento, contraria a ogni tipo di espressione individuale.
Oggi il tatuaggio è una pratica ancor più complessa da analizzare sotto il profilo sociologico e semantico; molti scelgono di macchiare il proprio corpo secondo una valenza puramente estetica, pur dichiarando di pensare al significato del simbolo. Abbiamo visto come numerose culture dalle radici antiche che praticavano (e ancora praticano) il tatuaggio sciamanico hanno gettato le basi per la moderna esplorazione della nostra identità.
I tatuaggi possono rappresentare sia una rivelazione che una proclamazione dei propri archetipi incarnati, sogni, emozioni, ricordi, come se all’inchiostro donassimo coscienza. Quest’arte “tagliente” si interfaccia con il sottile campo energetico del nostro corpo, oltre la lente della body art. Il potere simbolico delle cicatrici che scegliamo di indossare affonda, in maniera consapevole o meno, le proprie radici nel puro, nella magia e nel misticismo, così come la moltitudine di espressioni dell’arte visiva: è questa l’arte del “fai da tela”, l’arte che macchia irrimediabilmente il nostro foglio bianco come antidoto contro il tempo, l’arte che lascia immaginare, che si lascia guardare, che non ammette spiegazioni.
Mena Trotta