Nell’ottobre scorso, la Intelligence and security committee del Parlamento del Regno Unito ha trasmesso allo staff del premier Johnson un report dal contenuto particolarmente delicato. Il documento, inviato a Downing Street perché dia il via libera alla pubblicazione, contiene i risultati di un’analisi di alcune agenzie di intelligence britanniche, che hanno indagato sulle interferenze del governo russo sul referendum Brexit del 23 giugno 2016. La stampa inglese ha ipotizzato che il documento dia conto dei finanziamenti che il partito conservatore avrebbe ricevuto da diversi magnati russi, tutti vicini al presidente Vladimir Putin.
Ad oggi non è dato sapere cosa contenga esattamente il report: al momento infatti Downing Street non vuole renderlo pubblico, e questa decisione ha scatenato le reazioni dell’opposizione. Lo Scottish National Party e i laburisti hanno accusato Johnson di voler nascondere la reale misura delle ingerenze russe nella politica britannica.
Sul punto è anche in corso un’inchiesta di openDemocracy che ha rivelato, fra l’altro, che sin dal 2010 diversi uomini di potere russi avrebbero portato più di 3,5 milioni di sterline alle casse dei Tories. Quindi sono evidenti i motivi del timore del premier Johnson per la pubblicazione del report: il suo contenuto infatti potrebbe destabilizzare la posizione sua e del partito conservatore. Ipotesi non praticabile, considerando che il 12 dicembre prossimo in Regno Unito si terranno le elezioni politiche. In questo cruciale appuntamento i cittadini britannici – prossimi alla Brexit – saranno chiamati, fra l’altro, a decidere le sorti dell’uscita o meno dall’Unione Europea.
Al di là dei possibili contenuti del report, è verosimile ipotizzare che alla Russia e al suo “zar”, Vladimir Putin, convenga un’Unione Europea più debole, che la Brexit favorirebbe. Infatti, specie dopo il referendum di annessione della Crimea del 2014, i rapporti tra l’establishment europeo e il Cremlino si sono visibilmente logorati. Il referendum ha infatti svelato la netta distanza di vedute tra i due poli d’Europa, con una Russia intenzionata a conservare la sua sfera d’influenza a Est. Ma secondo alcune analisi, l’obiettivo della Russia non sarebbe tanto quello di restaurare l’Unione Sovietica – ipotesi non più praticabile nemmeno per il Cremlino –, quanto quello di apparire come un modello alternativo a quello europeo, considerato fallimentare. Da un certo punto di vista si può dire che la Russia abbia voluto ribellarsi a quel sistema “eurocentrico” prospettato come l’unico possibile dopo la caduta del muro di Berlino.
Ma d’altro canto sarebbe sbagliato pensare che a causare un indebolimento dell’Europa sia stato lo “zar” Putin. È infatti l’Europa stessa ad aver posto le condizioni per far apparire quello russo un modello vincente. La spinta filorussa è direttamente connessa alla disaffezione del popolo europeo per il suo establishment, che molto spesso si è dimostrato lontano e indeciso. Un esempio riguarda le modalità di gestione dei migranti, fattispecie che avrebbe necessitato della costruzione di una politica sistemica e concordata fra gli Stati membri. Invece la questione in un primo momento è stata scaricata sui Paesi frontalieri, poi è stata semplicemente relegata ai margini del dibattito istituzionale. Considerarla non importante è stato un errore, se si pensa che proprio puntando sulla cattiva gestione del fenomeno i partiti euroscettici hanno costruito il loro consenso.
Queste formazioni politiche hanno iniziato a “strizzare l’occhio” a Vladimir Putin, un uomo dotato di un certo carisma, a capo di una Russia che appare, quanto meno dall’esterno, un Paese stabile, sicuro, ordinato. Un autentico modello da imitare, in cui regnano da un lato una forte impronta nazionalista, plasmata – questa sì – da Putin, dall’altro uno stabile conservatorismo sociale.
Se non ci sono prove che Putin abbia scatenato il dissenso del popolo europeo nei confronti dell’Unione, è innegabile che lo abbia alimentato, e le varie alleanze che nel corso degli anni ha instaurato con i partiti euroscettici lo dimostrano. Ma ancora, non ci sono prove che dimostrino al di là di ogni ragionevole dubbio che la Russia abbia svolto e stia svolgendo una campagna sistemica di finanziamento di partiti “antisistema” o “euroscettici” o che stia in qualche modo cercando di agevolare la Brexit: finanziatori e finanziati negano l’esistenza di rapporti economici continuativi; le informazioni più interessanti sul tema sono in mano ai servizi di intelligence statali, e quindi sono difficilmente accessibili e divulgabili. Però basterebbe “unire i puntini” su singoli episodi degli ultimi anni perché il quadro d’insieme susciti una certa inquietudine.
È dell’estate scorsa lo scandalo che ha coinvolto anche Matteo Salvini sull’incontro all’hotel Metropol di Mosca, nell’ottobre 2018, fra tre magnati russi dell’industria petrolifera e Gianluca Savoini, amico e portavoce dell’ex ministro dell’Interno. Ad oggi, sul presunto finanziamento alla Lega “mascherato” da acquisto di una partita di petrolio, la Procura di Milano sta indagando per corruzione internazionale. Nel 2013 il Front National di Jean Marie Le Pen avrebbe ricevuto 9,46 milioni di euro dalla Czech Russian National Bank, un’istituzione finanziaria molto vicina al Cremlino.
La stampa inglese riporta che il partito conservatore del Regno Unito sarebbe stato finanziato, fra gli altri, da Alexander Temerko, ex burocrate del ministero della Difesa russo e sedicente “amico” di Johnson, che ha donato 1,2 milioni di sterline. Lubov Chernukhin, moglie di Vladimir Chernukhin, uno dei principali alleati di Putin, avrebbe pagato 160 mila sterline per una partita di tennis con Boris Johnson e David Cameron, e ne avrebbe donato più di 450 mila al Partito conservatore. Se queste consistenti donazioni ci sono state, i Tories hanno beneficiato di una forte preminenza – economica e mediatica – durante la campagna a favore della Brexit.
A fronte dei rapporti economici opachi e misconosciuti dagli interessati, il silenzio delle istituzioni europee sull’argomento è assordante. Sarebbero necessari dei provvedimenti attivi per far luce su questi rapporti. I partiti “antisistema” (o “euroscettici” che dir si voglia) godono di una rappresentanza nel Parlamento Europeo. Questi beneficiano pienamente di quei valori democratici che spesso osteggiano, assumendo posizioni apertamente filorusse, in contrasto con l’establishment europeo. Si potrebbe citare il caso del referendum in Crimea del marzo 2014. Mentre l’OCSE ha deciso di non inviare propri rappresentanti nella penisola, alcuni politici europei appartenenti a partiti euroscettici – fra i quali il Front National e la Lega Nord – hanno presenziato alle operazioni di voto. Così facendo hanno permesso a Vladimir Putin di dare una legittimazione internazionale a quel referendum.
Quindi i partiti euroscettici approfittano di un “paravento democratico”, potendo manifestare apertamente le loro simpatie per il governo russo, ma i presunti rapporti economici di questi gruppi con l’entourage di Putin rimangono nell’ombra. Considerando gli ultimi avvenimenti del Regno Unito e la Brexit alle porte, l’Unione Europea dovrebbe prendere una posizione più netta, svolgendo indagini istituzionali e, magari, delle inchieste sulle modalità di finanziamento dei gruppi del Parlamento Europeo. Probabilmente dovrebbe anche interrogare se stessa sul perché il proprio modello liberaldemocratico è considerato, anche dagli stessi cittadini europei, non vincente e debole rispetto a quello della Russia di Putin.
Raffaella Tallarico