Da circa un anno, l’industria globale sta vivendo una crisi lancinante dovuta soprattutto alla carenza di chip, cioè di semiconduttori in grado di determinare il funzionamento di un dispositivo elettronico e la sua capacità di memoria. Non si tratta di quisquilie, dato che il settore dei microchip vale ben 440 miliardi di fatturato annuo ed è in costante crescita (+7,7% soltanto nel 2021). Inoltre, il loro impiego spazia dal settore dell’automobile a quello dei videogiochi, passando per ogni tipo di dispositivo tecnologico, come smartphone e computer. Una supply chain dal grande valore, che pone il mercato dei microchip nel novero di quelli in grado di determinare gli equilibri globali.
La crisi, cominciata nell’industria automobilistica, si è diffusa negli ultimi mesi anche in altri settori produttivi e, secondo gli esperti potrebbe avere delle disastrose ricadute sulla ripresa economica che dovrebbe susseguire agli squilibri provocati dalla pandemia. Soltanto negli Stati Uniti, la carenza di chip ha fatto scendere le stime di produzione delle vetture di 450mila unità, con ricadute sui fatturati per un valore di 15 miliardi dollari.
Altri esempi di ripercussioni dovute alla carenza di microchip passano per gli smartphone e i videogiochi. La Sony e la Microsoft, che producono PlayStation e Xbox, non sono ancora riuscire a soddisfare l’enorme domanda di console di ultima generazione a causa della carenza di chip. Lo stesso problema è al centro delle preoccupazioni anche di chi si occupa di elettrodomestici (come Whirpool e la Foxconn) e di schede grafiche per i computer (Nvidia e AMD).
Ovviamente la penuria di chip renderà più lunghi e lenti i processi di produzione, con tempi di consegna più lunghi e le presentazioni di prodotti rimandate. La conseguenza dei ritardi potrebbe, però, ripercuotersi sui consumatori con un repentino aumento dei prezzi.
La carenza di microchip è cominciata qualche mese fa e non tutti i motivi sono legati alla pandemia, nonostante questa abbia rivestito un ruolo importante. La Covid-19 ha provocato un rallentamento della produzione, con conseguente indebolimento delle catene di approvvigionamento mondiali. Inoltre, a causa delle chiusure provocate dalla pandemia, la domanda di prodotti è aumentata, con ricadute su quella di chip.
Ma oltre ai motivi sanitari c’è ben altro. La guerra commerciale inaugurata da Donald Trump contro Pechino ha bloccato i commerci delle aziende e ha spinto altre, tra cui la Huawei, ad accaparrarsi a buon mercato quanti più chip possibili prima che avessero inizio le sanzioni. Da allora, i governi stanno cercando di trovare delle soluzioni a una crisi nera che ha avuto evidenti ricadute anche sulla competizione per l’egemonia globale. Joe Biden, alla fine dello scorso febbraio, ha firmato un ordine esecutivo con l’obiettivo di rendere più efficiente la supply chain produttiva, mentre la Cina ha aumentato gli investimenti del governo per raggiungere l’indipendenza tecnologica.
Il repentino intervento degli esecutivi in un settore la cui conoscenza dell’opinione pubblica è limitata e lacunosa, è il simbolo di quanto, invece, l’importanza del settore dei microchip, e la relativa indipendenza delle supply chain, sia un obiettivo a breve termine per dare uno scossone agli equilibri globali e ribaltare i rapporti di forza esistenti tra le due principali potenze produttrici, cioè gli Stati Uniti e la Cina. In mezzo alla competizione si colloca l’Unione Europea, la quale da anni rivendica un ruolo nell’importante mercato dei chip senza successo. Il rischio di essere risucchiati da una guerra tecnologica con importanti ricadute sulla produttività è molto alto, soprattutto se gli sforzi europei di intervenire sulla sovranità tecnologica dovessero rivelarsi vani.
Un mercato redditizio
La supply chain dei chip è divisa in 3 fasi procedurali: ricerca e progettazione, fonderia, assemblaggio test e imballaggio. La prima fase è appannaggio statunitense, che detiene il 90% del mercato degli strumenti per progettare e produrre strumenti elettronici (EDA), come i software di automazione dei layout dei microchip. In virtù di questo strapotere produttivo, la metà delle vendite globali di chip sono controllate dagli americani, contro il 10% dell’Unione Europea e il 5% della Cina.
La situazione cambia se si considera l’attività di fonderia, dominata dalle aziende asiatiche e in particolare quelle taiwanesi e coreane, con il 23% e il 26% delle capacità produttive del settore. In Asia orientale si concentra circa l’80% della produzione mondiale di chip per un valore di 100 miliardi di dollari entro il 2025. La Cina ricopre il 12% della quota suddetta, un aumento di circa 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni. Alcune stime riferiscono che con questi ritmi di crescita il dragone potrebbe raggiungere il 28% della produzione mondiale entro il 2030. Al contrario, gli europei e gli americani sono passati da una quota complessiva del 40% a rispettivamente il 10% e il 12%.
Insomma, è evidente lo spostamento verso Oriente della capacità ingegneristica e dell’avanzamento tecnologico in tema di chip. Uno dei motivi principali per cui le produzioni asiatiche primeggiano riguarda proprio gli incentivi. Il costo di una proprietà di una nuova fabbrica situata negli Stati Uniti è molto più alto che in Taiwan, Corea del Sud e in Cina. Ciò è dovuto soprattutto ai corposi finanziamenti che i governi asiatici offrono alle aziende produttrici di microchip affinché producano all’interno dei propri confini. Ecco perché il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è intervenuto a pochi mesi dal suo insediamento per fermare l’esodo migratorio della produzione di chip per tecnologie sensibili mettendo sul piatto ben 50 miliardi di dollari in 5 anni, con il fine di rilanciare l’industria made in USA dei chip.
Nelle intenzioni di Biden, il piano dovrebbe invertire il declino americano nella produzione di chip, permettendo la costruzione di 19 fabbriche nei prossimi dieci anni, capaci di riportare la quota mondiale statunitense dal 12% al 24%. Dal canto suo, Intel ha già annunciato un investimento di 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche in Arizona. Lo stato del sud-ovest, inoltre, dovrebbe accogliere due impianti da decine di miliardi di dollari appartenenti alla Samsung Electronics e a TSMC.
Al contrario degli USA, il Giappone ha promosso un fondo per i chip di soli 1,8 miliardi di dollari ma ha anche recentemente presentato un piano per attrarre aziende straniere e favorire investimenti. Una soluzione anomala, dato il forte orgoglio nipponico nel settore tecnologico, ma che sottolinea la necessità di trovare un modo per evitare di essere sopraffatti dalla prossima guerra tecnologica che coinvolgerà i due colossi della produzione mondiale.
L’utopia europea della sovranità tecnologica
La crisi dei chip di questi mesi ha avuto degli effetti rilevanti anche sul mercato europeo. L’automotive europeo è stato costretto a rivedere i propri piani produttivi tagliando le forniture e riducendo addirittura gli optional all’interno delle automobili. Alcune imprese (come Bosch) hanno risposto alla crisi aprendo altri stabilimenti e promettendo di investire miliardi nella ricerca ma, almeno nel breve-medio periodo, qualsiasi sforzo non basterà.
La competizione tra USA e Cina e il punto di non ritorno delle relazioni tra le due superpotenze tecnologiche non promette bene, soprattutto dal punto di vista europeo. Nonostante i proclami della Commissione, le difficoltà oggettive sono evidenti: anni di dipendenza straniera hanno impedito all’Unione Europea di pensare un piano strategico in un settore importante come quello dei chip. A dimostrazione dell’utopia sovrana europea c’è l’istituzione di un Consiglio UE-USA per le tecnologie emergenti e il lancio di una “task force per il settore manifatturiero e la supply chain” con gli americani.
A marzo gli europei hanno promesso un’accelerazione nella produzione di microchip: un piano di 117 miliardi di dollari per la transizione tecnologica che comprende anche i semiconduttori. In più a dicembre 2020, 18 stati membri hanno firmato una dichiarazione congiunta che punta a raccogliere investimenti, provenienti dal bilancio europeo, dai piani nazionali di recupero e resilienza del settore privato per espandere la produzione di chip ad alta efficienza. L’obiettivo è quello di portare la produzione dall’attuale 10% al 20% nel giro di qualche anno, con la possibilità di divenire il leader nello sviluppo dei chip di prossima generazione, cioè quelli da 2nm.
Nonostante i propositi la realtà europea è ben diversa. All’UE mancano aziende fabless, cioè aziende di progettazione, e soprattutto fonderie di chip in grado di rivaleggiare, o perlomeno garantire una sorta di autonomia strategica, con i competitori asiatici e americani. In sostanza, se la politica industriale cercherà di garantire una posizione centrale nella supply chain dei chip, resterà sempre il problema dell’accesso alle tecnologie straniere. Quest’ultimo punto è importante soprattutto in chiave di sicurezza nazionale (difesa e 5G ad esempio).
La competizione USA-Cina passerà, dunque, anche per l’indipendenza tecnologica. Pechino sta investendo molto per una propria produzione di semiconduttori, gli americani stanno facendo lo stesso. L’Unione Europea, invece, si affaccia al problema per la prima volta dopo anni di miopia politica e interessi particolari che hanno impedito una chiara contezza del problema. La sovranità tecnologica europea è una di quelle utopie che rischia di costare caro al continente.
Donatello D’Andrea