Catalogna, due anni dopo: si torna a parlare di indipendenza?
(David Ramos/Getty Images)

A due anni dall’ormai celeberrimo referendum, in Catalogna politici e cittadini sono tornati a parlare di indipendenza. Il primo ottobre migliaia di individui sono scesi in piazza per manifestare in occasione dell’anniversario che ha diviso l’intera Spagna e che continua a costituire terreno di scontro fisico e verbale.

Tacciato di illegalità, il referendum per l’indipendenza si tenne all’interno di un clima violento. Si contarono più di 700 feriti. Due anni dopo, poco sembra essere cambiato: sono stati sette gli arresti operati dalle autorità spagnole nei confronti di individui sospettati di preparare atti terroristici contro le istituzioni. Lo stesso Sanchez si è espresso al riguardo, richiamando i catalani a rispettare le leggi e minacciando di far scattare l’articolo 155 della Costituzione, il quale limiterebbe la sovranità di una regione autonoma in situazioni di emergenza per la pubblica sicurezza.

In attesa della sentenza nei confronti dei leader catalani, prevista tra il 10 e il 16 ottobre, è bene fare un passo indietro per spiegare le cause che hanno portato i cittadini della Catalogna a maturare un sentimento indipendentista e le conseguenze di un’eventuale secessione.

Le origini dell’insofferenza della Catalogna

L’insofferenza della Catalogna ha radici antiche. L’ultimo leader politico che dichiarò l’indipendenza della regione spagnola si chiamava Lluís Companys e venne fucilato da Francisco Franco nel 1940, che sulla scia dei vari totalitarismi abolì l’autonomia e cancellò l’uso della lingua catalana.

I catalani sono malati di passato. In molti dei loro ragionamenti prevalgono sentimenti anti-nazionalisti risalenti al regime franchista, contro la Castiglia centralista. Ancora oggi non è raro trovare alcuni indipendentisti che accusano il precedente governo di Mariano Rajoy di essere stato un “esecutivo di matrice franchista”. Ma seppur l’oppressione sia finita nel 1975 e la democrazia abbia restituito ai secessionisti la propria lingua e l’autonomia perduta, nessuno ha ancora dimenticato l’ignobile passato vissuto all’ombra del Generalissimo.

Per comprendere la portata del sentimento secessionista basta far riferimento ad alcune peculiarità catalane come l’uso esclusivo della propria lingua. Ciò è evidente soprattutto nelle piccole comunità della regione, come quella di Vic: un paesino al confine con la Francia che nel 2012 si è autoproclamato “territorio catalano libero e sovrano”.

Ma non è stato solo il franchismo a provocare tanto sgomento in Catalogna: anche le politiche degli ultimi governi hanno le loro responsabilità. Nel 2015 la coalizione secessionista vinse le regionali in Catalogna. Il sistema elettorale spagnolo premia i partiti forti nelle aree rurali, piuttosto che nelle grandi città. Un seggio costa più a Barcellona che a Vic. In poche parole, la coalizione che governa la regione ha la maggioranza dei voti ma non quella sociale.

Una maggioranza che ha consentito a Carles Puigdemont, l’eroe dell’indipendenza della Catalogna, di portare la sfida secessionista in Catalogna alle estreme conseguenze, con la collaborazione degli errori commessi da Madrid. Se Rajoy avesse colto la sfida elettorale lanciata dal suo rivale indipendentista, con una maggioranza di seggi in regione ma in netta minoranza al di fuori, sicuramente la situazione sarebbe meno accesa e non avrebbe visto riunirsi a Barcellona 600mila manifestanti.

Una soluzione come quella adottata dal Parlamento britannico con la Scozia: accettare la sfida elettorale avrebbe dipinto l’esecutivo di matrice popolare come un governo forte e compatto, ciò avrebbe probabilmente attirato i più indecisi.

Comunque sia la Costituzione spagnola non prevede il referendum di autodeterminazione, ma una strada alternativa si poteva trovare (federalismo?). Il Primo Ministro Sanchez, dopo la mozione contro Rajoy, ha preso in mano la situazione annunciando un dialogo con le forze secessioniste. Ha chiuso ad un secondo referendum, ufficiale e non ufficioso, e ha promesso più autonomia. Una scelta che non ha soddisfatto le istanze catalane.

Ad onor del vero, anche all’interno del fronte secessionista non mancano correnti alternative. Infatti Esquerra Republicana, uno dei principali perni per l’indipendenza, ha mutato parzialmente la sua posizione, invitando i secessionisti a mitigare il loro atteggiamento nei confronti del governo spagnolo. Al contrario, Puidgemont continua a spingere affinché la tensione rimanga forte.

L’atteggiamento di intransigenza di Mariano Rajoy (“muro contro muro”) non ha fatto altro che rafforzare la seconda corrente, quella che qualche giorno fa è scesa in piazza chiedendo a gran voce l’indipendenza e le dimissioni di Pedro Sanchez, considerato inadeguato. Il socialista è stato già sfiduciato precedentemente grazie anche ai voti dei catalani.

L’instabilità politica spagnola è la forza della Catalogna

Il rapido succedersi di due governi nel giro dello stesso anno è il simbolo dell’instabilità politica spagnola. Quest’ultima risulta essere collegata, con un invisibile filo conduttore, alla questione catalana e soprattutto allo spazio che il sistema elettorale spagnolo garantisce alle autonomie.

L’esempio lampante è quello delle ultime elezioni politiche tenutesi lo scorso aprile. Il blocco di centrosinistra è riuscito a superare quello di centrodestra, con il trionfo del PSOE e il crollo dei popolari dell’ex Mariano Rajoy.

La somma dei seggi dei partiti di sinistra era 165, circa 11 in meno della maggioranza. Qui entrano in gioco i partiti indipendentisti. Circa 38 seggi del Parlamento spagnolo sono occupati da rappresentanti delle autonomie spagnole regionaliste. Un dialogo con le comunità autonome avrebbe potuto fornire al socialista il sostegno di cui aveva bisogno per governare. Purtroppo ciò non è stato possibile a causa del fallimento dei tentativi di dialogo all’interno della stessa sinistra, di conseguenza il 10 novembre la Spagna voterà per la quarta volta in altrettanti anni.

Le conseguenze di un’eventuale secessione

Tema centrale di un’eventuale discussione sulla scissione della Catalogna dalla Spagna sarebbe quello economico. Il Paese perderebbe circa il 20% del suo PIL nazionale e 16 miliardi di euro di contributi che incassa con le tasse. La Catalogna, assieme alla comunità delle Baleari e a quella di Madrid, è la regione più ricca della Spagna, anche per le industrie.

Secondo alcuni economisti, in caso di indipendenza, la Catalogna potrebbe sopravvivere ugualmente grazie alla sua economia, al suo ormai integrato sistema interno e alla sua leadership nel Comitato delle Regioni dell’Unione Europea (e di conseguenza all’interno della UE stessa).

Inoltre, territorialmente la Catalogna occupa una superficie simile a quella del Belgio, ha una popolazione di 7,5 milioni di abitanti e un PIL simile a quello della Norvegia. Apparentemente la regione si collocherebbe all’interno della ristretta cerchia delle aree più ricche d’Europa. L’unico guaio sarebbe quello derivante dalle conseguenze di una rottura violenta e improvvisa con Madrid.

In particolare Bruxelles ha chiarito che un’uscita non concordata corrisponderebbe all’uscita dall’UE, alla perdita dei fondi strutturali e di investimento europei. Inoltre la regione perderebbe anche quella “rete di sicurezza” che rappresenta per i sistemi bancari la Banca centrale Europea. Un altro problema sarebbe quello con cui oggi sono chiamati a confrontarsi gli inglesi: il “border”, la frontiera.

Una separazione non consensuale corrisponderebbe ad un successivo boicottaggio da parte della Spagna e all’imposizione di dazi da parte dell’UE. Per quantificare il danno basti pensare che la Catalogna ogni anno esporta in Europa per un valore di 37 miliardi.

Ecco perché alcuni economisti sono meno ottimisti rispetto ai precedenti nei confronti della situazione catalana. I rischi di isolamento economico e di impoverimento sono molto elevati. A questo proposito, gli indipendentisti hanno affermato di voler continuare a far parte dell’Unione Europea. Bruxelles, dal canto suo, non potendo intervenire in una situazione interna (per ovvie ragioni), ha risposto che la Catalogna, per quanto le riguarda, è una regione autonoma della Spagna.

Ad oggi la Catalogna è soprattutto un sentimento, una passione, un’idea di comunità ideale da costruire. Al contrario delle scialbe imitazioni nostrane, le istanze catalane derivano da un duraturo sentimento di sfruttamento, causato in primis dalla dittatura di Francisco Franco e proseguito a causa della sciatteria e delle indecenti politiche condotte dagli ultimi governi. Se Mariano Rajoy avesse aperto al dialogo nel 2017, ora la situazione sarebbe radicalmente diversa. Nonostante tutto aprire al confronto, anche oggi, è sempre possibile.

Donatello D’Andrea

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