Hai un lavoro, un compito da fare. Non hai voglia per niente, ti capita mai?
Stessa cosa deve essere successa ai Duffer Brothers quando si sono seduti attorno al tavolo per programmare e scrivere Stranger Things 3.
La domanda, in effetti, dopo aver visto gli otto capitoli che compongono la terza serie è: davvero i creatori avevano voglia di portare avanti la loro creatura? O sono stati spinti dai produttori, dal dio denaro, o magari da quei mattacchioni social friendly di Netflix, ad andare avanti? O tutti e tre?
C’è una massima, che vale ancor di più in ambito artistico: se si fa una cosa unicamente per fini commerciali, difficilmente si riuscirà a lasciare il segno. E in Stranger Things 3 non è l’eccezione che fa la regola, ma è la regola che si manifesta in tutta la sua severità. Sì, perché un calo così evidente da una stagione all’altra non si vedeva da un bel po’. E chi scrive è perso nella idea utopica che una qualsiasi narrazione di un certo rilievo per l’immaginario globale, debba continuare – solo e se – i creatori sentono una reale ispirazione; è un atto di responsabilità verso tutti quei cimeli che hanno lasciato tracce importanti nella cultura pop. Invece. quando c’è solo la volontà (spesso di altri), e a mancare è proprio l’ispirazione, il risultato è quello ammirato, si fa per dire, in Stranger Things 3.
Bello, sì, Stranger Things 3, ritroviamo il simpaticissimo Steve, lo sdentato Dustin, Undi e tutti i mostri creepy ma…
L’errore di base è che si pretende di reggere tutto il carrozzone unicamente sulle skill simpatetiche e sulle interazioni monocorde dei personaggi che abbiamo imparato ad amare. La serie insiste così tanto su questi aspetti fino a condannare le sue creature a un destino caricaturale difficile da digerire.
Per il resto, davvero poco, sul lato narrativo, quanto registico, quanto tecnico (salviamo gli effetti speciali).
La prima stagione aveva fatto breccia nel cuore di molti, arrivando in brevissimo tempo a diventare un cult dell’epoca del binge watching grazie al mistero e all’estetica retrò.
La seconda colpiva per la capacità di espandere in maniera intelligente – e tutt’altro che scontata – il pantheon dell’universo fantasy horror creato dai fratelli Duffer.
Questa terza stagione, invece, è una riproposizione in salsa diversa delle stesse minacce, delle stesse situazioni, con lo stesso refrain e schema narrativo delle passate stagioni.
Gli unici archi narrativi fatti evolvere (più per inerzia che per altro) sono quelli a stampo romance fra i protagonisti, con l’unica piccola luce, sensata, che racconta la crescita dei ragazzi e il passaggio da bambini ad adolescenti. La fine dell’innocenza, i prodromi della maturità. Maturità a quanto pare sconosciuta a Stranger Things 3, che dal punto di vista tecnico e narrativo rimane – e ora possiamo dirlo senza timore – una serie acerba, per quanto l’immaginario dei Duffer Brothers continui a trasudare passione per gli anni ’80. Ora però quest’aspetto è colpevole e biasimabile perché la loro idea di cinema si liquefa nei mesmerismi della loro adolescenza, che nel pratico diventa un porto sicuro per non fare i conti con alcuni limiti di scrittura. Una trappola che sta affogando il loro lavoro e sì, sta ammazzando pian piano anche la loro creatura.
O magari no, non è così, i Duffer Brothers sono davvero dei talenti, ma a questo punto è chiaro come il sole del mattino che non riescano a sostenere il ritmo imposto da chi investe il denaro. Bene, questo è un appello a loro due: se avete a cuore la vostra carriera, i fan della vostra creatura, fermatevi. Stranger Things, per la popolarità raggiunta, ha il potere di dettare le regole: i tempi e i modi attraverso i quali raccontare se stessa. Avete regalato al mondo qualcosa di bello per un po’, non lo rovinate.
Ok, magari stiamo esagerando. Ma in Strangers Things 3 per diversi momenti si avverte prepotentemente l’incapacità gestionale dei personaggi: non a caso, fin da subito, i nostri sgangherati eroi vengono separati e seguono storyline a sé, schematiche, che solo alla fine confluiscono (cosa già vista in parte nella seconda, ma lì la cosa aveva senso). E vogliamo parlare della qualità delle storyline? David Harbour (Jim) e Winona Ryder (Joyce) la cui interazione è tutto un insopportabile urlarsi contro e di smorfie teatrali alla Whoopi Goldberg perché oh.. loro devono fare simpatia, Winona alla cerimonia dei Sag Awards 2017 ci ha fatto sganasciare con le sue facce strane, urla, AHAHAH che risate!
Sì, anche basta.
Purtroppo, o per fortuna, Stranger Things non è finito qui. Il finale della terza stagione da un’iniezione di speranza: è un lento crescendo, di potenza tellurica, dall’innegabile presa emotiva, e finalmente con una scrittura degna e circolare, che pone le basi per una nuova stagione. Purtroppo, e sottolineiamo purtroppo, si suppone che si rimescolerà il mazzo (la scena post credit è indicativa) pescando ancora una volta dagli elementi “forti” delle prime due stagioni. Ma è chiaro che a questo giro ci vorrà un piglio diverso, una spinta coraggiosa e la voglia di esplorare qualcosa di nuovo (pur mantendo l’estetica cara ai Duffer) per tornare ai livelli ammirati (questa volta per davvero) nelle prime due stagioni. O davvero tutto andrà sottosopra.
Enrico Ciccarelli