Mappare Firenze in aree climatiche ‘hot’ e ‘cold’ attraverso fonti satellitari Nasa e definire in questo modo tre diversi livelli di criticità che consentano un intervento mirato per mitigare le isole di calore. È questo il contenuto dell’accordo sottoscritto il 2 febbraio scorso tra il Comune di Firenze e l’Istituto per la BioEconomia del Cnr, nel tentativo scongiurare un ulteriore aumento delle temperature.
Infatti rispetto al valore medio, calcolato tra il 2007 e il 2016, nel 2018 a Firenze la temperatura ha subito un incremento di 0,4°C. L’incremento di temperatura però non ha riguardato solo Firenze, anzi. 87 sono stati i capoluoghi di provincia in cui la temperatura media nel 2018 è aumentata rispetto a quella registrata tra il 2007 e il 2016. È il cambiamento climatico a spiegare questo aumento di temperatura, ma non anche il perché in città tende a fare più caldo che in campagna. Tra i primi a studiare scientificamente la differenza di temperatura tra centro città e zone periferiche, il chimico britannico appassionato di meteorologia, Luke Howard, che fu anche il primo a utilizzare l’espressione “isola di calore” nel significato che oggi le attribuiamo.
In meteorologia e climatologia l’isola di calore è il fenomeno che determina un microclima più caldo all’interno delle aree urbane cittadine, rispetto alle circostanti zone periferiche e rurali. La formazione di questo microclima è dovuta alla concomitanza di più elementi, tutti di origine antropica. Sebbene ogni città abbia caratteristiche sue proprie, legate tanto al modo in cui si è sviluppata quanto alla zona geografica in cui si trova, tutti i centri urbani si caratterizzano per la presenza di superfici scure che assorbono molta più radiazione solare rispetto agli elementi tipici delle aree rurali, scaldandosi quindi di più. La conducibilità termica, che indica la capacità isolante di un materiale, è infatti più alta nell’asfalto delle strade e nel cemento degli edifici rispetto a quella di suolo e alberi. E lo stesso dicasi per il calore specifico, che invece misura di quanto aumenta la temperatura di una sostanza in base al calore che fornisce.
Al contempo, gli edifici impediscono al vento di soffiare con la medesima intensità che viene registrata nelle aree extraurbane. Questo limita la circolazione delle correnti ascensionali e riduce, di conseguenza, la dispersione del calore verso l’alto. Inoltre, l’assenza di suolo non ricoperto da asfalto nonché la scarsa presenza di alberi in città comporta una minore evapotraspirazione. Questo fenomeno, che consiste nel passaggio dell’acqua all’aria (allo stato di vapore) attraverso la traspirazione delle piante o la diretta evaporazione della parte umida del suolo, contribuisce alle variazioni della temperatura. La dispersione del calore verso l’atmosfera è rallentata anche dall’inquinamento prodotto dal traffico veicolare e dagli stabilimenti industriali che insieme contribuiscono a produrre strati di ozono localizzati che amplificano l’effetto serra sulla città. Anche i sistemi di riscaldamento e di aria condizionata a uso domestico sono determinanti nella formazione delle isole di calore.
Le temperature più alte, infatti, determinano un uso più intenso dell’aria condizionata e di conseguenza una notevole dispersione di calore all’esterno dei palazzi dovuta proprio ai condizionatori nonché un maggiore consumo di energia elettrica necessaria per alimentarli. Se l’energia proviene da centrali a combustibili fossili, una maggiore attività delle centrali stesse contribuisce a sua volta a fare aumentare l’inquinamento locale e quindi la temperatura, innescando così un circolo vizioso dannoso tanto per l’ambiente quanto per la nostra salute. E poiché la diffusione di impianti di climatizzazione non rappresenta che un palliativo al problema delle isole di calore, occorre allora interrogarsi su quali soluzioni siano realmente efficaci per risolvere il problema.
L’impiego di materiali chiari o maggiormente riflettenti rappresenta uno dei possibili rimedi contro l’effetto isola di calore. Le superfici chiare rispetto a quelle scure, infatti, sono in grado di aumentare l’albedo della città, vale a dire la sua capacità di riflettere le radiazioni solari e quindi ridurre l’assorbimento di calore. Anche sostituire il bitume impiegato per impermeabilizzare i tetti degli edifici con materiali alternativi può contribuire alla causa. Ma la soluzione più efficace e duratura resta sempre quella più difficile da attuare: smantellare un sistema solido come il materiale su cui si fonda, un sistema che ha fagocitato avidamente tutto ciò che cemento non è. E finché proprietari immobiliari, costruttori e investitori non saranno disposti a ripensare la consueta progettazione dello spazio urbano per lasciare, ad esempio, più spazio alla piantumazione di nuovi alberi, le isole di calore continueranno a rappresentare il girone dell’inferno per chi sceglie di sacrificare gli spazi verdi alla cementificazione selvaggia.
Virgilia De Cicco