carne coltivata e cibo sintetico
First_cultured_hamburger_fried: World Economic Forum - wikimedia.org

«Sulla base del principio di precauzione di cui all’articolo 7 del regolamento (CE) 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002, è vietato agli operatori del settore alimentare e agli operatori del settore dei mangimi, impiegare nella preparazione di alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare oppure distribuire per il consumo alimentare, alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati». Il secondo articolo del nuovo disegno di legge presentato dal Ministro Francesco Lollobrigida, che di fatto vieta la produzione di alimenti e mangimi sintetici, è al centro di una confusa e ideologica discussione tra i difensori del “cibo naturale”, responsabile di più di un terzo delle emissioni globali di gas serra, e chi sostiene invece che il “nuovo cibo” possa rappresentare la svolta green di cui l’umanità ha bisogno. In un coacervo di opinioni personali la scienza tenta di dare le prime risposte a una domanda già stranamente confutata da chi non ha alcuna competenza in campo scientifico: la carne coltivata è davvero sostenibile?

Cibo sintetico: propaganda ideologica vs. ricerca scientifica

Motivando la proposta del “Ddl sicurezza alimentare“, il Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Lollobrigida ha dichiarato, tra le altre cose, che «Il disegno di legge che vieta la produzione e la commercializzazione di cibo sintetico nasce dalle istanze di associazioni di categoria (tra cui Coldiretti e il Consorzio per la Tutela del Formaggio Grana Padano n.d.r.), agricoltori, Regioni e Consigli comunali, di diverso colore politico, che hanno approvato provvedimenti contro gli alimenti prodotti in laboratorio». Il volantino pubblicato nei giorni scorsi dalla maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana conferma le parole del Ministro e lo fa fornendo precise risposte a una questione che, tocca ricordarlo, è ancora al vaglio della scienza. Sulla stessa linea di Coldiretti agisce il Consorzio Grana Padano, secondo cui la carne coltivata «rappresenta una convinta tutela per i consumatori e per i produttori italiani» e per questo la scelta di vietarla si rivela «lungimirante e coraggiosa».

Prima di analizzare la letteratura scientifica in tema di carne coltivata, è d’uopo approfondire il contenuto delle molteplici istanze su cui, a detta del Ministro Lollobrigida e del governo in carica, è basato lo “Schema di Disegno di legge recante disposizioni in materia di divieto di produzioni e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici“. Prendendo ad esempio la locandina che Coldiretti ha realizzato per supportare la raccolta firme contro il cibo sintetico, le ragioni del no alla “carne in vitro” e ad altri alimenti realizzati in laboratorio appaiono quanto mai chiare. Appaiono altrettanto lampanti le storture scientifiche che motivano le ragioni dell’istanza, sia quelle del “SI AL CIBO NATURALE” che quelle riferite al “NO AL CIBO SINTETICO”.

Punti quali «Tutela l’ambiente e lo straordinario paesaggio rurale», «Sostiene la biodiversità e la valorizzazione delle risorse naturali» (a favore della “natura”) o anche «È dannoso per l’ambiente: consuma più energia e inquina di più», «È rischioso per la salute umana» (contro gli alimenti sintetici) stonano parecchio con quello che finora il mondo scientifico ha scoperto e divulgato in materia di impatto ambientale e sanitario del cibo e in particolare della carne.

Non è più un mistero, da tempo la scienza ha accertato le conseguenze di un sistema di produzione alimentare non più sostenibile. Come già detto, a livello globale il “cibo naturale” è responsabile del 35% delle emissioni di gas serra e secondo il “Food System Impacts on Biodiversity Loss“, «il nostro sistema alimentare globale è la principale causa della perdita di biodiversità: basti pensare che soltanto il comparto agricolo rappresenta una minaccia per ben 24.000 delle 28.000 specie a rischio di estinzione, cioè l’86%». In Italia il 55% dei 26 miliardi di m³ di acqua consumati ogni anno è destinato al settore agricolo, comparto nel quale si spreca il 17% dei 33 miliardi di m³ effettivi prelevati ogni dodici mesi. Nonostante un costante calo delle emissioni di gas serra, l’agricoltura italiana è ancora al terzo posto nella classifica dei settori più inquinanti. Lo conferma il documento dell’ISPRA “Italian Emission Inventory 1990 – 2018” secondo cui il comparto agricolo nostrano emette circa 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalente ogni anno.

Capitolo a parte meritano i danni causati dall’uso di fertilizzanti e pesticidi chimici in agricoltura. Ancora una volta le dichiarazioni pubbliche di chi difende il “cibo naturale” cozzano con quanto affermato dalla scienza. Secondo il Ministro Lollobrigida «La tutela delle api non deve mettere a rischio produzione agricola. Sarebbe sbagliato collegare il declino degli impollinatori all’uso dei pesticidi». Nel maggio del 2020 l’ISPRA pubblicò un documento contenente le risposte alle domande più comuni sulla perdita delle api e degli insetti impollinatori. L’espansione delle monocolture, i metodi di difesa delle coltivazioni, la trasformazione dell’uso del suolo e i cambiamenti climatici sommati alla crescente urbanizzazione e ad altri fattori di stress rischiano di far estinguere per sempre il 17% degli impollinatori vertebrati e il 40% degli impollinatori invertebrati. Una perdita globale già in atto: «Negli ultimi anni gli apicoltori hanno lanciato l’allarme per la riduzione del numero delle colonie di api e per il declino delle loro popolazioni. In Italia sin dal 2003 sono stati segnalati eventi significativi di moria delle api, concentrati in primavera» si legge nel documento. Se pensiamo che «Nel processo di produzione alimentare, oltre il 75% delle principali colture agrarie beneficia dell’impollinazione operata dagli animali in termini di produzione, resa e qualità. Il volume di raccolti delle colture dipendenti dagli impollinatori è triplicato negli ultimi 50 anni», si rivela dunque necessario un netto cambio di passo non solo nei metodi di produzione del settore agricolo, ma anche e soprattutto nel reperimento delle fonti su cui si basano le dichiarazioni e, di conseguenze, le misure politiche riguardanti il comparto alimentare (e non solo).

Carne coltivata: cosa dice la scienza?

Non sono molti gli studi LCA (Life Cycle Assessment: studi basati su una metodologia che valuta l’impronta ambientale di un prodotto/servizio lungo il suo intero ciclo di vita) che hanno tentato di elaborare stime preliminari sull’impatto ambientale della produzione di carne coltivata su scala globale. Nel 2011 i risultati del rapporto “Environmental Impacts of Cultured Meat Production” dimostravano che in determinate condizioni di produzione la carne sintetica rispetto a quella convenzionale «comporta un consumo energetico inferiore di circa il 7-45% (solo il pollame ha un consumo energetico inferiore), emissioni di gas serra inferiori del 78-96%, uso del suolo inferiore del 99%, e un consumo di acqua inferiore dell’82-96% a seconda del prodotto confrontato».

Cambiando i fattori di produzione (bioreattori, nutrienti e acqua) nel 2014 un team di ricercatori ha scoperto che gli impatti ambientali legati alla produzione di carne coltivata, analizzati nello studio “Environmental impacts of cultured meat: alternative production scenario“, erano maggiori rispetto a quelli calcolati nel documento del 2011. Risultati confermati da “Anticipatory Life Cycle Analysis of In Vitro Biomass Cultivation for Cultured Meat Production in the United States“, nel quale l’analisi della produzione di carne in vitro mostrava impatti ambientali non trascurabili. Le ricerche fino a qui analizzate indicano che c’è ancora molto lavoro da fare al fine di comprendere i potenziali pregi e i possibili difetti della carne coltivata.

Fattori quali i sottoprodotti del bestiame, le fonti di energia utili alla creazione di alimenti sintetici, il successivo utilizzo delle terre liberate dai pascoli permanenti e dalla produzione di mangimi non possono essere ignorati nella valutazione complessiva degli impatti ambientali della carne coltivata e di altri prodotti alimentari in vitro. Lo conferma Hanna L Tuomisto, del Dipartimento di scienze agrarie dell’Università di Helsinki, che nell’articolo “The eco-friendly burger” afferma che «Se i pascoli permanenti fossero convertiti per la produzione agricola intensiva, gli impatti netti sul cambiamento climatico (della carne coltivata n.d.r.) potrebbero essere addirittura negativi». Al contrario, dato che in molte aree non sarebbe possibile convertire i pascoli in seminativi «l’uso alternativo sarebbe la foresta o la vegetazione autoctona. In questi casi, la conversione aumenterebbe gli stock di carbonio nel suolo e nella vegetazione e, quindi, si tradurrebbe in benefici ambientali ancora più elevati di quelli mostrati dai semplici confronti a livello di prodotto». Affermare con certezza che il cibo sintetico è «È dannoso per l’ambiente: consuma più energia e inquina di più» è quindi alquanto azzardato proprio perché le valutazioni fin qui fornite dalla letteratura scientifica sollevano ulteriori domande a cui la scienza e solo la scienza potrà rispondere.

Anche gli effetti sulla salute umana del consumo di alimenti sintetici sono ancora oggetto di controversie scientifiche. Secondo “The Myth of Cultured Meat: A Review” gli ipotetici vantaggi attribuiti alla carne coltivata sono tutti da dimostrare. Come, d’altro canto, lo sono gli svantaggi. Contenuti nutrizionali della carne in vitro rispetto a quella convenzionale, riduzione dell’uso degli antibiotici, malattie legate agli spazi ristretti in cui vengo allevati gli animali e contaminazioni in fase di macellazione sono fattori che possono fare la differenza nella ricerca utile all’aspetto sanitario della carne coltivata. Servirà tempo affinché la scienza riesca a fornire risposte chiare ed affidabili in tal senso. Ed è per questo che anche l’affermazione secondo cui il cibo sintetico «È rischioso per la salute umana» si dimostra azzardata e scientificamente infondata.

La scelta di vietare la produzione e il commercio di carne coltivata si rivela, nel contesto che abbiamo analizzato fino a qui, ideologica e palesemente indirizzata verso la difesa di alcuni precisi interessi commerciali minacciati, tra le altre cose, sempre più dalla crisi climatica. La storia recente ha dimostrato che quando si parla di tutela ambientale, gli estremismi non aiutano. Sbandierare il mito dei potenziali benefici della carne coltivata è errato tanto quanto cercare di dimostrare in tutti i modi che il cibo sintetico è il nuovo male da sconfiggere. Occorrerà tempo affinché la scienza ci indichi la via da intraprendere nei confronti dell’alimentazione in vitro. Nel mentre sempre la scienza ci ha già fornito linee guida ambientali che però ci ostiniamo a non mettere in pratica. La rivoluzione del sistema alimentare globale è, ad esempio, una delle azioni da intraprendere con più urgenza. Prima di affrontare nuove battaglie, prima di legiferare in maniera ideologica in merito ad argomenti di cui si hanno poche certezze scientifiche, bisognerebbe concentrarsi sulle sicurezze che la scienza ci ha già fornito. Bisognerebbe, appunto.

Marco Pisano

Sono Marco, un quasi trentenne appassionato di musica, lettura e agricoltura. Da tre e più anni mi occupo di difesa ambientale e, grazie a Libero Pensiero, torno a parlarne nello spazio concessomi. Anch'io come Andy Warhol "Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare". Pace interiore!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui