Lo scorso 4 novembre, Roberto Venturini ha presentato il suo romanzo “L’anno che a Roma fu due volte Natale” (SEM) nell’ambito della rassegna Letture al Bistrot, una serie di aperitivi letterari organizzati da Le Assaggiatrici-blog, in collaborazione con la cooperativa Lazzarelle, il circolo Legambiente La Gabbianella e il Gatto e la libreria Ubik di Napoli.
Letture al Bistrot. Incontro con Roberto Venturini, autore di “L’anno Che A Roma Fu Due Volte Natale”Letture al Bistrot. Incontro con Roberto Venturini
Il ciclo di incontri letterari nasce dall’iniziativa di un gruppo di attiviste, le Lazzarelle – detenute ed ex detenute del carcere femminile di Pozzuoli -, impegnate nella creazione di nuovi circuiti sociali che rendano possibile una nuova concezione di detenzione: non uno strumento esclusivamente punitivo, ma un’opportunità per detenutə di rilancio di sé. Nel caso delle Letture al Bistrot, è la letteratura – nella sua accezione di elemento estraneo alle logiche di mercato e di consumo dominanti – a essere mezzo di aggregazione sociale e di riscatto: nel raccontare storie, un autore attiva i processi di identificazione e condivisione di pensieri e sentimenti universali. L’aperitivo letterario – grazie alla lettura collettiva e all’incontro con l’autore – diventa, per chi vi partecipa, un momento di eversione dai ritmi frenetici e dalla meccanicità della routine quotidiana e, per chi lo organizza, un’occasione di riscossa.
Quest’anno, ad aprire la rassegna è stato proprio Roberto Venturini che, con il suo romanzo, ha saputo dar voce agli ultimi, adattandosi perfettamente allo spirito della rassegna e alle battaglie portate avanti dalle sue organizzatrici.
La trama de “L’anno che a Roma fu due volte Natale” di Roberto Venturini
Nello squallido scenario del Villaggio Tognazzi di Torvaianica, covo di star della televisione negli anni ’90 e adesso abbandonato al degrado, una madre depressa e suo figlio tossicodipendente provano a ricucire i brandelli di una vita segnata dal lutto: Marco è un ragazzo ferito, dilaniato dalla morte del padre e costretto a portare sulle spalle il peso della malattia della madre, Alfreda, sprofondata nella depressione e nell’accumulo seriale di oggetti di ogni tipo, ciarpame inutile a cui si aggrappa per non sprofondare. La minaccia di un intervento dell’ufficio di igiene convince Alfreda a liberarsi dell’immondizia che accatasta compulsivamente in casa, ma a una condizione: aiutare un’amica in difficoltà. Infatti, il fantasma di Sandra Mondaini appare – regolarmente – in sogno ad Alfreda, chiedendole di riesumare le ceneri del marito e ricongiungerla così all’amato Raimondo per l’eternità. Nel tentativo disperato di salvare la madre, Marco si cimenterà nell’assurda impresa al cimitero del Verano assieme a Carlo, pescatore e amico di famiglia, e a Er Donna, transessuale afflitto dall’omicidio dell’amata.
La storia dai toni tragicomici prende vita sullo scenario decadente di Torvaianica, in cui alla criminalità organizzata e al degrado dello spacco, alla vita di stenti della periferia romana, si accompagna la ricerca di una verità universale, che fa capolino tra l’autenticità dei sentimenti dei protagonisti e il loro atteggiamento di sfida ironica alla società, che relega la sofferenza ai margini del mondo.
Il tutto condito dal sapore verace del dialetto romano, che diventa la cifra caratteristica dello stile di Roberto Venturini.
L’intervista all’autore
Qual è stata l’idea che ha ispirato “L’anno che a Roma fu due volte Natale” e cosa l’ha portata a scegliere proprio questa ambientazione: il riflesso di una periferia in decadenza? «Il movente principale che mi ha spinto a scrivere questo romanzo è stato l’essermi appassionato, in un particolare periodo della mia vita, a un fatto di cronaca: il ratto della salma di Mike Buongiorno. Una storiaccia che mi ha ossessionato perché apparentemente non c’erano ragioni valide per quel furto. Tanto che nessuno chiese un riscatto. Alla fine mi sono convinto che dietro questo gesto ci doveva essere una motivazione profondamente simbolica, una sorta di declinazione della mitomania. Impossessarsi di un simbolo nazionalpopolare. Questo è un nodo narrativo importante nel mio romanzo attorno al quale ho costruito una narrazione focalizzata su un nucleo famigliare. E poi, per una curiosa congiuntura astrale, ho trovato anche l’arena giusta nella quale ambientare la vicenda: Torvaianica. Un luogo che ha una storia tanto bizzarra quanto le cose che racconto.»
Sebbene l’impronta cinematografica sia riconoscibile maggiormente nella sua opera precedente, l’eco dell’intramontabile cinema romano – e dei suoi anni d’oro – è tangibile anche in “L’anno che a Roma fu due volte Natale”. Quanto lei – e quindi i suoi protagonisti- dovete ai grandi del cinema italiano? E a chi con particolare simpatia? «Non parlerei di comicità romana, che conosco anche poco, ma di commedia all’italiana. Quella che ha avuto registi del calibro di Marco Ferreri, Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola come massimi rappresentanti. Scie luminose del panorama culturale italiano capaci di manipolare alla perfezione il grottesco. Riuscirono alla perfezione a raccontare l’ironia amara che è a tutti gli effetti sublimazione della disperazione. In molti di quei film, sceneggiature – o soggetto – erano firmati da entità mitologiche come Flaiano, Malerba, Buzzati e tanti altri mostri sacri della letteratura contemporanea. A dimostrazione del fatto che il grottesco è nel DNA dei narratori del nostro paese.»
La candidatura al Premio Strega è stata per lei un’occasione di inscenare uno scorcio di società così reale e, spesso, cruda. Pensa che tali tematiche possano essere argomento o sfondo anche di nuove storie (e denunce sociali)?
«Il racconto della marginalità, che si fa evidente in “L’anno che a Roma fu due volte Natale” è stato, è e sarà sempre un terreno fortemente battuto in letteratura. Sicuramente questo trend non si arresterà, soprattutto in un contesto storico culturale come quello che stiamo vivendo.»
La sua partecipazione al palinsesto de “Letture al Bistrot” la vede presentare per la prima volta il suo capolavoro nella città di Napoli. Ha mai pensato che i suoi protagonisti e i loro percorsi possano avere dei “sosia” nascosti, o parallelismi riflessi in altre realtà cittadine? Se sì, quali in particolare?
«Io racconto una storia che si svolge in una località di mare durante l’inverno. Le atmosfere e i coloni che abitano in quelle realtà possono a buon diritto essere definiti universali. Potrei citarti la Rimini di Fellini, o Forte dei Marmi di Genovesi.»
È ancora possibile dar voce agli “ultimi”?
«L’esigenza di raccontare la marginalità fortunatamente è largamente avvertita da bravissimi autori (mi vengono in mente scrittori come Rapino, Giagni, Forgione, Gala). Non ci sono e non ci saranno mai problemi a dare voce agli ultimi».
Inserito a giusto merito nella dozzina finalista del Premio Strega, il romanzo di Roberto Venturini, “L’anno che a Roma fu due volte Natale” (SEM) è una piccola perla della letteratura contemporanea. Un libro che restituisce al lettore, senza mancare di leggerezza e umorismo, l’amarezza di un’esistenza – quella dei protagonisti – vissuta all’insegna della resilienza ai pugni della vita e ai turbamenti dell’anima.
Recensione e commento a cura di Giulia Imbimbo
Intervista di Francesca Scola