Giulio Casale è un artista eclettico che da oltre trent’anni spazia fra musica, teatro e letteratura, senza timore di commistione tra i generi, smarcandosi dall’immagine di cantautore alla quale siamo generalmente abituati.
Il suo disco più celebre “Dalla parte del torto”, si può definire un album solido, profondo, ricco di riflessioni, che s’intrecciano sia a livello sonoro che testuale. È una testimonianza ragionata e appassionata delle contraddizioni di una società in cui imperversa ovunque, da Internet alla vita reale, il desiderio di rendere, ad ogni costo, sé stessi parte attiva di un sistema folle e perverso: tutto è solo voglia di apparire, di essere al centro. Dove è finito il puro desiderio di comunicare, il semplice scambio di opinioni tra individui?
Nella nostra intervista a Giulio Casale emergono, in maniera sintetica e ponderosa, il suo carattere, le sue doti e le idiosincrasie nei confronti di alcuni fenomeni sociali che si manifestano oggigiorno.
“Dalla parte del torto” è il titolo di un celebre album di Giulio Casale. Spiegaci, innanzitutto, qual è la parte sbagliata.
«La parte sbagliata è quella che va contro alla convenienza e all’utilità. È quella di chi agisce senza opportunismo, senza pensare a come cavalcare il business. Questa è la parte sbagliata, almeno di questi tempi. Nell’ultimo ventennio, la tendenza dilagante è stata questa. Cavalcare la speculazione economica, anche a costo di fare qualcosa di scadente è stata la sola cosa capace di pagare. In pochi rari casi, poi, la qualità ha coinciso con ciò che piace al business, ma questa non è certo la regola. Questo disco è stata l’occasione con cui ho preso atto, mediante queste dodici tracce, che sono vent’anni che sto dalla parte del torto.»
Un disco duro nella sua sincerità, una visione del reale disincantata, come già solo emerge leggendo i titoli della tracklist. Giulio, come hai maturato questo lavoro?
«Per fortuna i titoli non lasciano spensierati, perché questo contravviene al caposaldo dello show business. L’industria discografica chiede proprio questo, di fare prodotti che non chiedano al pubblico di pensare, di porsi interrogativi. Questo perché presuppone che lo spettatore non ne abbia voglia. Personalmente, voglio scommettere che in Italia ci siano molte più persone di quelle che l’entertainment ammette, disposte a pensare, che vogliono riconoscere che dentro una canzone, un libro, un film ci sia un pensiero. Non parlo di filosofia, ma solo di pensiero.»
Un netto ritorno al rock nel quale, però, traspare il peso delle esperienze letterarie e teatrali che Giulio Casale ha affrontato in questi anni. Come è avvenuta, come ha hai armonizzato, questa confluenza tra rock e poesia?
«In questo disco non c’è poesia, la poesia è ben altra cosa e ne sono un grande fan. Qui a Milano, ad esempio, c’è un signore che tutte le mattine all’alba, si sveglia e attraversa tutta la città per andare ad insegnare italianistica ai carcerati dell’istituto carcerario di Opera: si chiama Milo De Angelis ed è, secondo me, il più grande poeta d’Italia. Lui svolge questa professione, la quale gli è stata riconosciuta dalla critica e dall’editoria. I testi di “Dalla parte del torto”, invece, sono parole fatte per essere cantate. Certo, sono testi duri perché parlano tutti di coscienza definitiva di essere precipitati all’Inferno. Ne parlano tutte ed undici le mie liriche, compresa la cover di Battiato.»
La Fine arriverà o “ci siamo già dentro”?
«Siamo in una fase di passaggio. È evidente, sta finendo un certo assetto, un certo modello sociale, un certo tipo di capitalismo, una certa arroganza elevata a sistema. Tutto questo sta finendo. Per fortuna non c’è più una lira e quella tracotanza dilagante è molto meno giustificata rispetto a quando circolavano molti più soldi. Forse si inizia a capire che è stata proprio essa che ci ha portati al disastro economico. Non è questo il punto, non la crisi finanziaria ma quella culturale che dilaga. Noi, l’Occidente, siamo in piena e conclamata crisi culturale; questo è un bene perché se ogni crisi porta ad una fine ed è tutto questo che se ne andrà, non possiamo che esserne lieti.»
Giulio, come mai la scelta di registrarlo alla vecchia maniera? Volontà di negazione o di artificio?
«C’è molto artificio perché nel disco si sovrappongono i piani della ripresa diretta di musicisti che suonano dal vivo insieme con musica pre-registrata e post-registrata da macchine. In questo, l’album vive una sua peculiare contraddizione: non è lineare ma è molto ambizioso proprio perché presenta uno spettro sonoro molto profondo. So che questo, soprattutto ad un primo ascolto, può inquietare l’ascoltatore; spero che si dia il tempo di approfondire questa novità che sente proprio nel suono del disco.»
Ascoltando i tuoi testi, sembra che una sorta di disgusto per ciò che è, che abbiamo creato, pervada tutto il tuo essere. Da qui la domanda: che cosa ti piace in ciò che vedi?
«Ho affermato che siamo precipitati all’Inferno; ciononostante vedo tante cose belle intorno a noi. Le vedo nella bellezza, nei gesti non eclatanti, non urlati, non sciovinisti né volgari perché sono gesti che contraddicono inevitabilmente quello che è l’assetto dominante, il mainstream, la corrente principale. Ci sono tantissime eccezioni meravigliose a quelle che sono le regole del nostro tempo.»
Vincenzo Nicoletti