Il 13 giugno Fabio Ridolfi, il 46enne piemontese affetto da tetraparesi, è morto in un hospice di Fossombrone, in provincia di Pesaro Urbino, dopo aver chiesto la sedazione profonda e rinunciato, suo malgrado, al suicidio assistito. Lo riporta un comunicato dell’associazione Luca Coscioni, che aveva fornito all’uomo assistenza legale. Ridolfi c’era quasi: a marzo scorso aveva chiesto all’Azienda sanitaria unica delle Marche – regione in cui risiedeva sin da bambino – la verifica della sussistenza dei requisiti per poter ricorrere a questa pratica. Gli stessi che la corte Costituzionale, nella sentenza del 2019 sul caso Dj Fabo che ha portato all’assoluzione di Marco Cappato, indica per escludere la punibilità di chi aiuta qualcun altro a morire. In quell’occasione, vale la pena ricordarlo, la stessa Consulta ribadì “con vigore” «l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore».
Quella stessa sentenza, nel silenzio di una legge che ancora non c’è, individua nel proposito «autonomamente e liberamente formatosi» di una persona che ha una patologia «irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» e tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale» i requisiti che una «struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» deve valutare per consentirle di morire, escludendo la responsabilità penale del personale sanitario. Fissate le condizioni e le modalità di esecuzione del suicidio assistito, e previo parere del «comitato etico territorialmente competente», l’azienda sanitaria pubblica dà il proprio via libera alla pratica.
Ridolfi rientrava in tutti questi requisiti e aveva ottenuto l’accesso al suicidio assistito. Nel 2004, poco prima di compiere 28 anni, fu colpito da un’emorragia cerebrale che gli causò una tetraparesi, costringendolo a stare a letto. Una malattia irreversibile che ha portato Ridolfi a non poter più comunicare, come Piergiorgio Welby, Dj Fabo e tanti altri prima di lui. Ma gli ostacoli burocratici hanno dilatato i tempi della procedura. Ostacoli che, nel caso di un malato grave, perdono il connotato folcloristico e “all’italiana” per assumere contorni grotteschi, rendendo di fatto inapplicabile il diritto di essere aiutati a morire. “Ho fretta di morire” era proprio il messaggio che aveva lanciato sul suo comunicatore oculare il 27 maggio, dopo aver diffidato l’Asur Marche a indicare quale farmaco usare per il suicidio assistito. Ancora prima, c’era stato il ritardo di 40 giorni nel rendere noto il parere del comitato etico e, tra l’altro, solo a seguito di un altro video appello: “Gentile Stato italiano, aiutami a morire“. Dieci giorni dopo, il 7 giugno, Ridolfi ha deciso di accedere alla sedazione profonda e continua. Si tratta di una pratica consentita dalla legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) nell’imminenza di una morte che provochi dolori insopportabili, e che consiste nell’addormentamento del paziente con farmaci sedativi, con riduzione progressiva della percezione dei sintomi legati alla malattia.
Il ddl sul suicidio assistito è fermo nelle commissioni Giustizia e Sanità al Senato. Il 10 marzo era stato approvato alla Camera. Ma questo atto, come segnalato dallo stesso Marco Cappato durante le lungaggini del caso Ridolfi, non dice nulla sulla necessità che il via libera al trattamento, una volta effettuate le valutazioni mediche, controllati i requisiti e acquisito il parere del Comitato etico, sia tempestivo e certo nei contenuti. Lo stesso dossier di accompagnamento del disegno di legge evidenzia questa criticità: si legge che «non c’è un termine temporale per la redazione del rapporto» del medico specialista. Ma, per chi ha fretta di morire come Ridolfi, ostruzionismi e ritardi sono l’ultima, inaccettabile beffa.
Raffaella Tallarico