Dall’assenza di donne dal podio all’alternanza di co-conduttrici sul palco: la settantatreesima edizione del Festival di Sanremo si conferma appannaggio esclusivo del maschile. Nessuna delle cantanti in gara, anzitutto, si è posizionata tra i primi cinque classificati e no, la qualità delle performance messe in scena c’entra davvero poco o nulla con questa esclusione. Le loro canzoni, infatti, pur essendo perfettamente in grado di competere con quelle dei loro colleghi maschi sono state penalizzate già in partenza, come spesso accade ai prodotti realizzati dalle donne nel mercato discografico. Il discorso è lungo e anche complesso e a volerlo sviscerare per intero non basterebbe un solo articolo. Per fortuna, però, ci sono i dati a restituirci perentoriamente il quadro della situazione. Sebbene sia sconfortante.
Cosa dice il Women in music industry?
Come si legge all’interno del report Women in music industry realizzato dal SAE, le donne sono poco rappresentate in tutti i contesti musicali e nelle classifiche, dal lato artistico alla produzione. Una situazione che in Italia, indietro sia in termini di consapevolezza che di azione concreta verso il cambiamento, è amplificata più che altrove.
Traducendo questa situazione in termini numerici e guardando alle incisioni complessive, il gender gap è incontestabile: secondo i dati IMAIE del 2020, infatti, i brani maschili costituiscono il 91,85% di quelli totali contro l’8,15% di quelli femminili. Fanno eco i dati aggiornati al 2021 elaborati dall’Italia Music Lab, hub che supporta i giovani music creator italiani, che dimostrano come nelle prime 20 posizioni delle classifiche dei dischi più venduti in Italia nel 2021 c’è solo un’artista, mentre tra gli autori iscritti alle maggiori società di collecting europee, le autrici rappresentano in media il 16%. Passando alle classifiche di Spotify in Italia, la situazione non cambia affatto: le musiciste valgono il 14,1% del totale, i musicisti il 58,4% e le band il 27,5%. Le conseguenze dell’esistenza di tali barriere di ingresso, che si interpongono tra donne e mercato discografico, si declinano in modo diverso. Ne è un esempio la difficoltà di non riuscire a conquistare l’apprezzamento di un pubblico generalista, non riuscendo a raggiungere quel successo trasversale riservato invece a chi, anche per ragioni numeriche, è in grado di vendere di più.
Sanremo 2023: dove sono le donne?
Le donne, come si diceva, non sono state escluse solo dai prima posti della classifica finale. Anche la conduzione del Festival, infatti, è stata prerogativa esclusivamente maschile. Sì, Sanremo l’ho guardato e la presenza delle co-conduttrici non mi è certo sfuggita ma, altrettanto certamente, non è credibile che l’alternanza di donne sul palco sia di per sé sufficiente a scardinare un sistema in cui conduzione e direzione artistica sono di consueto affidate a un uomo. Un uomo che annuncia le sue co-conduttrici – ma a chiamarle vallette non si fa errore – le aiuta a scendere la temibile scalinata dell’Ariston, ne apprezza la bellezza e, infine, concede loro poco, pochissimo, spazio. Ora, bisognerebbe chiedersi qual è il ruolo delle co-conduttrici invitate a Sanremo. Perché, evidentemente, presentare non sembra essere la risposta. Se così fosse, infatti, non solo avrebbero un’autonomia diversa, che non si concilia con i tempi che le vedono presenti in scena, ma soprattutto sarebbero svincolate da quella sorta di obbligo a cui sono chiamate a rispondere. Un obbligo che le rende protagoniste di un monologo edificante che possa giustificare la loro presenza su quel palco, perché che siano brave in ciò che fanno poco importa se poi non lo sanno dimostrare.
E allora eccole protagoniste di una storia che da individuale deve necessariamente trascendere verso l’universale per permette di adempiere a quella funzione educativa di cui pocanzi si diceva e guai, naturalmente, a non riuscirci. Non ci è riuscita, per esempio, Chiara Ferragni (ma a ben vedere nessuna delle co-conduttrici è stata all’altezza delle aspettative dei telespettatori), che è stata accusata di aver tenuto un discorso troppo autoreferenziale, un po’ banale e anche non del tutto rispondente al vero, avendo omesso di far riferimento al suo privilegio da donna ricca e pure bella. Un vero disastro, insomma, che niente aveva a che vedere con l’empowerment femminile e nemmeno con gli altri temi femministi affrontati all’interno del discorso.
Scale di femminismo
Eppure Chiara Ferragni ha utilizzato la sua voce per fare da eco alle operatrici di D.i.Re – donne in rete contro la violenza, portando visibilità (oltre che un’ingente donazione) a chi quotidianamente offre assistenza e aiuto alle vittime di violenza di genere. Ha utilizzato gli abiti indossati e disposto del proprio corpo per lanciare messaggi che, checché se ne dica, in Italia sono tutto fuorché scontati. Ha espresso concetti che, se ai più sono sembrati banali, hanno avuto il merito di mettere in luce la natura trasversale di alcuni fenomeni discriminatori che riguardano le donne e che, sempre, le riguarderanno, indipendentemente dal loro status di appartenenza. A questo punto, allora, mi sembra d’obbligo un rimando alle riflessioni di Carolina Capria. Se queste considerazioni possono apparire così banali è forse perché, anche noi, abbiamo dalla nostra un privilegio: disponiamo, cioè, degli strumenti necessari a riconoscere i vari modi in cui si manifestano violenza e discriminazioni nei confronti delle donne.
Ma se tali strumenti li impieghiamo per valutare quanto sia femminista un’altra donna anziché servircene per capire perché una manifestazione come Sanremo – che è molto più di un festival musicale – non riesca a non essere una faccenda di soli uomini, allora quegli stessi strumenti non li stiamo utilizzando nel modo più corretto.
Virgilia De Cicco