Quando nell’estate del 2016 Simone Inzaghi, promesso sposo della Salernitana, soffiò praticamente il posto a Marcelo Bielsa sulla panchina della Lazio – a seguito degli ormai famosissimi screzi di quest’ultimo con il presidente Claudio Lotito – nessuno avrebbe immaginato che l’ex attaccante biancoceleste sarebbe rimasto così sulla panchina degli Aquilotti. Né ci si aspettava che un allenatore alla sua prima esperienza in Serie A, finito lì per puro caso, fosse in grado di dare alla Lazio una sua impronta di gioco, un suo carattere, un suo stile, tradottosi in diversi risultati ottenuti sul campo: tre qualificazioni in Europa League consecutive, una Supercoppa Italiana e una Coppa Italia nel giro di tre stagioni; se a ciò si aggiungono una qualificazione in Champions League sfumata all’ultimo minuto a causa dell’Inter ed una finale di Coppa Italia persa contro la Juventus, quello che emerge è che i modesti traguardi raggiunti da Inzaghi appaiono quantomai significativi. E non tanto per la loro importanza o il loro prestigio, quanto per il difficile scenario societario che ha accompagnato e continua ad accompagnare la Lazio da ormai 15 anni e che ha mietuto molteplici vittime, tra le quali Delio Rossi, Reja, Petkovic e, per l’appunto, El Loco Bielsa.
Uno calvario iniziato nell’ormai lontano 2004 e caratterizzato da una situazione finanziaria disastrosa, i cui effetti furono tamponati attraverso l’adozione di un piano di “risanamento” grazie al quale Claudio Lotito riuscì, dopo aver rilevato la società, ad addivenire ad un accordo con Equitalia mediante il quale si impegnava a restituire 140 milioni in ben 23 anni. Facile intuire come tale scenario abbia fortemente limitato la capacità d’azione della Lazio, che, di conseguenza, non si è resa protagonista di numerosi investimenti di rilievo sul mercato; tuttavia, è altrettanto facile intuire come la situazione economica descritta sia stata parzialmente utilizzata come uno scudo per giustificare una costante inerzia sul mercato che da anni i tifosi biancocelesti attribuiscono al Patron Lotito, accusato di utilizzare le casse biancocelesti per gestire i suoi affari personali e società a lui riconducibili, piuttosto che dedicarsi alla crescita della squadra.
Eppure, nonostante la mancanza di investimenti importanti, gli Aquilotti qualche soddisfazione se la sono tolta, ed il merito va in gran parte riconosciuto al loro condottiero, un Simone Inzaghi che, a fronte della ritenuta precarietà delle casse societarie, è riuscito, da vero trascinatore, a creare un gruppo straordinario, unito, fatto di giocatori caparbi e pronti a dare l’anima in campo fino all’ultimo minuto, come dimostrato nella difficile finale contro l’Atalanta. Un gruppo che da quando Inzaghi è alla guida non è cambiato molto nei suoi interpreti, salvi i decisivi innesti di Acerbi, che non sta facendo per nulla rimpiangere Stefan De Vrij, e Joaquin Correa, che da oggetto misterioso si è rivelato pedina fondamentale dell’undici biancoceleste in questo finale di stagione, ma che, nonostante ciò, è riuscito a mantenersi sempre nei piani alti della classifica.
Insomma, il pur travagliato cammino della Lazio e di Simone Inzaghi dimostra come le difficoltà interne di una società possono anche non ripercuotersi sul campo quando a capo del gruppo c’è un allenatore che crea tra sé e la squadra un legame indissolubile, che evita di esporsi in maniera critica verso la società e non perde mai occasione per mostrare il suo amore per la maglia. In effetti, il lato romantico della storia è che a portare in trionfo i biancocelesti sia stato proprio lui, un suo ex giocatore, quel numero 21 che ha avuto l’onore di poter festeggiare il famoso ed insperato scudetto dell’anno 2000 e che adesso, insieme a Roberto Mancini, è l’unico ad aver vinto sia da giocatore che da allenatore con la Lazio. Quell’Inzaghi che ha sempre faticato a trovare un posto da titolare da giocatore e che, analogamente, con non poca fatica ha sempre mantenuto salda la sua posizione sulla panchina della Lazio, dalla quale viene puntualmente allontanato da tifosi e giornali a margine di qualche periodo negativo caratterizzato dalla mancanza di risultati.
Ma ciò che, più di qualunque altra circostanza, rende il lavoro svolto da Inzaghi quasi equiparabile ad una impresa, è la immaginabile difficoltà nel gestire una relazione con un presidente come Claudio Lotito e la verosimile mancanza di un autentico organigramma societario, che oltre ad Igli Tare non conta praticamente altri interpreti. Ecco perché, se si pensa ai milioni spesi e ai super investimenti portati a termine dalle squadre dirette concorrenti della Lazio negli ultimi anni, i risultati raggiunti dalla Lazio di Inzaghi all’interno di un ambiente societario quasi inesistente meritano riconoscenza e rispetto.
Tanto ardua è stata l’impresa che non desterebbe sorpresa un suo eventuale addio a fine stagione, fomentato dalle voci di mercato che vogliono Giampaolo pronto ad accettare la destinazione romana e dalle mancate risposte del tecnico biancoceleste alle domande dei giornalisti. A quel punto, Claudio Lotito farebbe meglio a trovare un sostituto adeguato, dotato delle stesse caratteristiche, della stessa grinta ma, soprattutto, della stessa pazienza.
Amedeo Polichetti