Alessio Avellino è un poliziotto transgender, dottorando presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II in Scienze Sociali e Statistiche e presidente di PolisAperta, associazione LGBTQIA+ delle Forze dell’Ordine. Quando ha iniziato la sua carriera nel Corpo e il suo percorso da dottorando, però, i suoi documenti erano al femminile. Alessio si ritiene un ragazzo estremamente fortunato: sia nella Polizia di Stato che all’università ha incontrato persone che gli hanno permesso di vivere serenamente la sua identità. L’amministrazione pubblica italiana, al contrario, è piuttosto obsoleta e non inclusiva sulle questioni legate all’identità di genere poiché fa riferimento solo a identità binarie, creando un forte disagio in tutte quelle persone che non si riconoscono in esse. A Libero Pensiero Alessio ha raccontato la sua storia e fatto un’ampia riflessione sui diritti delle persone LGBTQIA+ nel nostro Paese nella Giornata internazionale contro l’OmoBiTransfobia.
Quello delle Forze dell’Ordine si è rivelato spesso essere un ambiente piuttosto conservatore sui temi LGBTQ+; inoltre, le forze dell’ordine fanno riferimento esclusivamente ad identità di genere binarie, penso alla questione delle divise che sono diverse per uomini e donne: com’è stato vivere la tua identità all’interno di tale contesto?
Alessio Avellino: «Prima di parlare della mia esperienza all’interno delle Forze dell’Ordine, vorrei fare una premessa: in Italia è l’Amministrazione Pubblica in generale a fare riferimento quasi esclusivamente ad identità di genere maschili e femminili e pertanto binarie, quanto più contemplando soltanto le identità cisgender. Questo lo voglio sottolineare per porre l’accento su una contestualizzazione più ampia del benessere delle persone trans*: in quanto tali, sono molteplici gli ambienti in cui viviamo situazioni di disagio perché invisibili. Ho rettificato i documenti a gennaio, post sentenza passata in giudicato e ho ottenuto la modifica dei miei dati per la carriera accademica soltanto ad aprile. Pertanto, fin quando non ho ricevuto la rettifica anagrafica, ho dovuto svolgere concorso e attività universitarie col mio deadname. Questo non per fare una sorta di benaltrismo ma per dire che all’esterno del mio ambiente di lavoro, non ho trovato la panacea alle differenze di genere. Ad oggi, sono ancora le persone a fare la differenza e non dei regolamenti specifici che ci tutelano: è questo da cambiare. Noi persone trans dobbiamo affidarci alla sensibilità del tutto personale degli individui che incontriamo».
Alessio continua poi raccontandoci uno scorcio sulla sua vita: «Mi ritengo un ragazzo fortunato, non un ragazzo tutelato. Sono stato fortunato perché, all’interno dei contesti in cui mi sono ritrovato per studiare o lavorare, ho incontrato persone che superando i codici e le normative da applicare hanno avuto gli strumenti emotivi per riconoscere la mia persona al di là dei dati anagrafici: sono stato proclamato dottore in Sociologia e ricerca sociale durante la mia seduta di laurea col nome d’elezione nonostante non sia previsto dalla legge e ho giurato in pantaloni nel 2020 nonostante la legge preveda la gonna per le donne che si accingono a prendere servizio per la Polizia di Stato. Questo è stato possibile perché Alessio è stato fortunato ed è fortunato ad avere la relatrice e la sua attuale tutor, che si è spesa affinché la sua identità venisse riconosciuta. É stato possibile perché la commissione di laurea e il relativo presidente hanno accettato e si sono mostrati disponibili. Allo stesso modo, Alessio senza la o sui documenti si è ritrovato a giurare in pantaloni a seguito di un’istanza per iscritto alla dirigente dell’Istituto per Sovrintendenti di Spoleto e accolta dalle personalità e dai ruoli incontrati nell’iter gerarchico essenziale all’avverarsi della possibilità. Banalmente, basterebbe veramente poco per tutelare le persone trans o non binarie: ad esempio concretizzare un regolamento che permetta il giuramento e di prendere servizio con la divisa che si preferisce; avere il nome puntato e il cognome per esteso sul cartellino da attaccare alla giubba durante il periodo di formazione, istruire il personale a chiedere al proprio collega o alla propria collega come preferisce essere chiamatǝ potrebbero essere delle policy attuabili. Semplicemente, lasciare che il genere sia un’espressione individuale, autodeterminata e performativa e non un obbligo culturale che trova la giustificazione della sua imposizione arbitraria nel più cieco determinismo biologico».
Negli ultimi anni i temi legati alle persone LGBTQ+ hanno iniziato ad essere più presenti nel dibattito pubblico, ma fino a qualche anno fa erano argomenti tabù. Com’è stato per te prendere consapevolezza di non rivederti nel binarismo di genere e magari avere difficoltà a parlarne o a trovare qualcuno che potesse capire?
Alessio Avellino: «Ho preso consapevolezza della mia identità di genere proprio mentre partivo per il 208° corso per Agenti e il mio livello di consapevolezze nell’ambiente era pari a zero: cosa potevo dire, cosa potevo non dire, cosa potevo fare e cosa dovevo non fare. Non ho vissuto il percorso di formazione con la stessa spensieratezza dei miei colleghi e delle mie colleghe: avevo paura che il mio percorso di affermazione di genere fosse inconciliabile con la carriera all’interno della Polizia di Stato. Nessuno mi garantiva una reale tutela, nessuno mi rassicurava sulla mia permanenza all’interno dell’Amministrazione una volta che avrei dichiarato che la mia identità non era allineata col mio sesso biologico. Sono arrivato a destinazione, a Roma, qualche mese dopo e con la presa in servizio è arrivata anche la mia terapia ormonale, le consapevolezze che ho costruito lentamente con l’ascolto profondo di quel me che chiedeva di emergere. Sono stato fortunato, la Dirigente del Commissariato al quale sono stato assegnato, ha accolto senza esitazioni “Alex”, il nome che avevo scelto in attesa di potermi presentare come “Alessio”. Ho redatto verbali e relazioni per un anno e mezzo, svolgendo attività di controllo del territorio e quindi in contatto diretto con le cittadine e i cittadini, dovendo ogni giorno firmare col mio nome anagrafico, anche quando ero ormai evidentemente un ragazzo e puntualmente mi rivolgevano la legittima domanda del: “ma chi è la donna che avete inserito nella copia che mi avete rilasciato? Io vedo due poliziotti”. Per assurdo, durante quel periodo io avrei dovuto e potuto perquisire una donna, nonostante quest’ultima avesse riconosciuto in me un’espressione di un ruolo maschile. Per fortuna, da quando sono partito per il corso di formazione nell’estate del 2019 fino a quando a novembre del 2021 ho iniziato il mio periodo di aspettativa per dottorato, ho sempre avuto dall’altro capo del telefono una persona che, al di là del suo ruolo sindacale e delle rassicurazioni relative alle sue competenze professionali, ha accolto i miei timori restituendomi speranza e possibilità. Ma per permettere alle persone LGBTQ+ in divisa di esserci sempre nello svolgimento del loro lavoro a servizio della popolazione bisogna che le normative riconoscano le loro esistenze e le tutelino in quanto tali».
Alessio, come saprai lo scorso 7 marzo è arrivata una storica sentenza che per la prima volta ha consentito ad una persona non binaria di cambiare nome e sesso senza prima sottoporsi a trattamento ormonale. Cosa ti auguri per il futuro delle persone trans nel nostro Paese? Come dovrebbe evolversi, secondo te, la giurisprudenza in merito?
Alessio Avellino: «La sentenza di rettifica anagrafica di genere per la persona NB del Tribunale di Roma è stata ottenuta dall’Avvocato Giovanni Guercio che stimo in quanto persona prima che in quanto professionista: mi ha accompagnato nell’iter giudiziario che ogni persona trans del nostro paese deve per forza affrontare durante il suo percorso di affermazione per poter richiedere la rettifica anagrafica e per poter avere accesso alle operazioni. Quando spiego alle persone che in Italia per poter operare organi sani vi è bisogno di un giudice che sentenzi in merito, mi guardano sbigottite. Personalmente ritengo che la rettifica anagrafica dovrebbe diventare una mera questione amministrativa. Il genere è un costrutto così importante per la dimensione identitaria che nessuno immaginerebbe di barattarlo per qualsiasi altro interesse: dirsi uomini e donne o non dirsi tali è un sentire così profondamente radicato che non ha bisogno di normative per essere gestito. L’identità di genere si autoregola nei rapporti sociali attraverso la “mano invisibile” dell’autodeterminazione personale e l’ordine sociale non è in pericolo se chi sente di essere difforme dalla regola si “autodenuncia”: ho trovato più imbarazzante essere una F sui documenti mentre le persone per strada mi reputavano un ragazzo e un poliziotto, per assurdo l’ordine sociale ha vacillato quando potevo utilizzare i bagni femminili avendo le conformità del genere maschile o quando mi sono ritrovato a votare per le amministrative in fila con le donne del mio seggio elettorale ( le liste sono divise indecentemente per genere)».
Alla fine è proprio Alessio a rivolgere una domanda e noi e ai/alle nostrǝ lettori e lettrici: «A questo punto mi chiedo: non sarebbe stato più opportuno che mi potessi allineare burocraticamente alla mia espressione/identità senza attendere l’intervento di una terza parte chiamata a sentenziare sulla possibilità dell’affermazione della mia personale esistenza? Sottoponiamo le persone trans e non binarie ad estenuanti iter per ottenere le autorizzazioni alla medicalizzazione o alle rettifiche anagrafiche per tutelare chi? Ma soprattutto, da cosa? Di cos’è che abbiamo paura e non riusciamo a nominare? La libertà di Essere?»
Martina Quagliano