In un mondo che si vede costretto al lockdown come unico strumento per contenere la pandemia, la retorica bellica si impone automatica. Si parla del coronavirus come di “un nemico insidioso”. Trump paragona la situazione all’attacco di Pearl Harbor e non manca chi, come il Premier Conte, riecheggia Churchill definendo quella attuale “l’ora più buia”. Questa retorica, alla quale risulta difficile sottrarsi, esige che medici e infermieri vengano definiti eroi. Nel linguaggio comune l’eroe è colui che, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie. Ammesso che gli operatori sanitari che mettono in pericolo la propria vita per salvare la nostra meritino un simile appellativo, c’è però da chiedersi perché lo stesso non vale per quegli uomini e quelle donne che quotidianamente si battono per la difesa di Madre Natura. Forse manchiamo di coscienza ecologica. Forse non abbiamo una reale percezione del pericolo e crediamo che, se proprio dobbiamo prendere a cuore anche la salute della natura, abbiamo ancora tempo per poterlo fare. Di fatto, quello che succede è che nel mondo ci sono uomini e soprattutto donne che mettono in pericolo la propria vita per difendere quella del nostro Pianeta e lo fanno non solo senza essere tacciati di eroismo, ma nell’indifferenza più totale.
Patricia Gualinga, Nema Grefa, Margoth Escobar, Salomé Aranda. Quante volte avete sentito pronunciare i nomi di queste donne associati ad imprese eroiche? Mai, presumibilmente. Eppure sono proprio queste donne che, alla stregua di medici e infermieri, si prendono cura dei polmoni verdi della nostra Terra proteggendo la più grande foresta pluviale del mondo: quella amazzonica. Sfidano gli interessi di grandi compagnie petrolifere e perfino quelli dei loro stessi governi, e lo fanno consapevoli che questo significa esporre, nella più ottimistica delle ipotesi, sé stesse e i membri della propria famiglia al rischio di terribili atti di aggressione.
Quanto accaduto, ad esempio, a Salomé Aranda, divenuta protagonista di una petizione di Amnesty International che porta il suo nome. Salomé è una leader nativa del popolo Kichwa nell’Amazzonia ecuadoriana. Lottatrice impavida, difende la foresta ma anche il diritto delle donne della sua comunità a vivere in un ambiente sano e libero dal pericolo della violenza sessuale, tanto diffuso quanto impunito. Gli appelli di Salomé però continuano a restare inascoltati così come inascoltato è rimasto il reclamo formale da lei presentato per denunciare l’attacco che alcuni sconosciuti hanno indirizzato alla sua abitazione. Ma, in fondo, è proprio questo che fanno gli eroi: mettono in pericolo la propria vita in difesa di un bene maggiore che, in questo caso, è rappresentato dalla natura. Eppure, in una presunta scala di eroismo, le loro gesta non si collocherebbero che nelle posizioni più basse, perché la natura è un bene da sfruttare, non certo da difendere e tutelare.
E quanti, invece, hanno mai sentito parlare di Qiu Shi, Kwan, Umi o Maya Yogi? Altre donne, altre eroine di cui probabilmente nessuno conosce il nome, la storia, l’esistenza. Come le prime, anche loro dedicano il proprio tempo alla difesa della natura. Dalla Cina al Nepal, passando per la Thailandia e la Malesia, proteggono la biodiversità del nostro pianeta e mentre lo fanno contribuiscono anche a rinnovare un corpo, quello dei ranger, che ancora si caratterizza per una forte presenza maschile. Kwan, per esempio, è l’unica donna in un gruppo di oltre 100 ranger. «Qualsiasi lavoro che riesce a fare un uomo, può farlo anche una donna. E a volte ci riesce anche meglio», dice con orgoglio e lei stessa ne è la prova. Come i suoi colleghi maschi esce di pattuglia per 15 giorni al mese e riesce a vedere i suoi figli al massimo due volte ogni trenta giorni.
Ma se Kwan ha deciso di dedicarsi alla difesa della fauna selvatica e al pattugliamento del parco nazionale di Kui Buri (Thailandia) non è solo perché ama la natura, ma anche per riuscire a garantire ai suoi bambini un’istruzione adeguata. Scelta coraggiosa quella di Kwan, che ogni giorno combatte i pericolosi bracconieri che minacciano il parco, ma anche gli infidi pregiudizi di chi ritiene che le donne non siano adatte allo stile di vita, troppo duro, dei ranger. E se sfidare le convenzioni sociali e difendere la natura non dovesse comunque risultare sufficiente per garantire loro il titolo di eroine dell’età moderna, donne come Kwan dovrebbero quantomeno essere considerate degli esempi. Esempi di arditezza, forza, intraprendenza. Qualità necessarie per sottrarsi a quella ordinarietà tossica e a quella normalità presunta che finiscono per legittimare sistemi sociali come il patriarcato in cui donna e natura vengono considerate oggetti di conquista. E allora, se la retorica bellica funziona è forse il caso di servirsene anche per combattere e sconfiggere un simile sistema, perché la scelta delle parole non solo permette di descrivere la realtà, ma contribuisce anche a costruirla e regolarizzarla. Se è in grado di costruire può, però, anche decostruire, scomporre, disfare… basta solo individuare il nemico giusto.
Virgilia De Cicco
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