Esiste un termine che viene utilizzato spesso nel mondo del calcio per riferirsi agli allenatori subentrati, specialmente quando si tratta di grandi squadre: traghettatore, ovvero colui che prende il posto di un altro allenatore ma solo per le rimanenti partite della stagione. Gennaro Gattuso aveva questa etichetta su di sé, dopo aver preso il posto di un Ancelotti che aveva reso il Napoli una squadra irriconoscibile, allontanandolo sia dalle zone che gli competono che dall’entusiasmo che eravamo soliti ammirare in questa squadra.
Ringhio è arrivato sulla panchina azzurra con la grande umiltà che lo ha sempre contraddistinto, ma certamente non in punta di piedi e non senza provare ad imporre la sua idea di calcio, che lo scorso anno stava per trascinare uno dei Milan peggiori della storia in zona Champions League. Non parliamo certamente di un allenatore appariscente nelle sue convinzioni tattiche – e in questo senso la somiglianza con Gattuso-calciatore è tanta – , ma non serve essere necessariamente allenatori pluripremiati per farsi ascoltare e rispettare dai propri giocatori, e certamente non serve per tenere un gruppo unito e ricompattarlo dopo le macerie di due mesi sciagurati.
“A me la vita e il mondo del calcio hanno dato più di quanto ho dato io, mi ha fatto diventare quello che sono diventato.”
Gennaro Gattuso
Il trionfo in Coppa Italia contro la Juventus è qualcosa che nasce da ben prima della rifinitura al San Paolo del giorno prima e ha ribadito che l’ex Milan, con i traghettatori, non ha veramente nulla in comune. Gattuso ha avuto il merito di riportare con i piedi per terra una squadra che si sentiva troppo bella per lottare, e lo ha fatto dal primo giorno, quando ha parlato di un Napoli che doveva raggiungere la quota dei 40 punti per la salvezza e che ha chiarito a tutti quale fosse l’attuale situazione degli azzurri, scivolati addirittura all’undicesimo posto dopo la sconfitta contro la Fiorentina.
Catenaccio o semplice ciniscmo?
Il Napoli che Gattuso ha riportato all’adorato 4-3-3 non ha però mai espresso un gioco spumeggiante, non ha mai giocato partite di stile sarriano e tanto meno di stile ancelottiano. Eppure gli azzurri sono risaliti fino alla sesta posizione, sono ancora in corsa in Champions League contro il Barcellona e hanno conquistato il primo trofeo dopo 6 anni di digiuno. Il tutto senza dominare le partite nel gioco, e pensare che la gran parte del merito non sia del famigerato traghettatore è un grave errore.
Sì, perché, per quanto non sia il Napoli sfavillante degli ultimi 5 anni, questa è una squadra che ha ritrovato compattezza ed efficacia senza mai cercare la giocata più difficile o quella più spettacolare. Gli azzurri si sono affidati completamente al suo mister e il risultato è stato battere le prime tre della classe in Coppa Italia (Lazio, Inter e Juventus), subendo un solo gol in tutta la competizione e dimostrando di aver ritrovato la voglia di giocare che per larghi tratti del campionato era scomparsa. La squadra di Gattuso ha giocato sulle debolezze degli avversari, piuttosto che sulla costruzione di gioco, rimanendo spesso con 9 giocatori di movimento sotto la linea del pallone e il centravanti libero di fare pressing. Sia all’andata che al ritorno contro l’Inter, gli azzurri hanno lasciato iniziativa alla squadra di Conte, non proprio tra le migliori quando si tratta di creare azioni pericolose tramite possesso palla, e specialmente all’andata il Napoli non ha avuto particolari grattacapi nel difendere.
Le uscite in transizione portate da Zielinski e Fabian hanno determinato gran parte del successo degli azzurri, con i due centrocampisti rimessi finalmente al centro del gioco e liberi di portare palla e uscire dalla trama di gioco, anche grazie all’accentramento nei loro ruoli di mezzala, rispetto alla forzatura da esterni di centrocampo nel 4-4-2 di Ancelotti. Gattuso ha poi affidato a Demme la responsabilità di dettare i tempi, senza il bisogno di forzare il passaggio più del dovuto, e ad Insigne quella di essere il rifinitore in fase di contropiede, come si è visto al San Paolo contro l’Inter. E contro la Juve, Gattuso ha impedito il naturale sviluppo del gioco di Sarri con raddoppi costanti sulle fasce e un continuo schermo su Pjanic, che ha visto pochissimi palloni. Difatti, nonostante un primo tempo in cui il pallone è stato quasi sempre tra i piedi dei bianconeri, la Juve ha impensierito Meret solo sugli errori degli azzurri e mai per meriti propri, mentre nel secondo tempo non sono arrivati tiri pericolosi verso la porta azzurra.
Una vittoria che è solo di Gattuso
Con la sua grinta e con la sua forza d’animo, nonostante il lockdown e nonostante ciò che è successo nella sua vita privata, Ringhio ha guidato la sua squadra verso un titolo insperato e inaspettato, mettendo a nudo tutti i problemi della Juventus e scrollandosi quell’ingiusta etichetta di traghettatore ricevuta a dicembre. E tutto questo semplicemente riportando con i piedi per terra squadra e ambiente, facendoci quasi ricordare del sorprendente Napoli di Mazzarri, una squadra che sapeva soffrire e ripartire con grandissima qualità, dimostrando grande personalità anche quando è servito il pugno duro, come nei casi di Allan e Lozano, che non stavano dando il 101% per la causa.
Il primo trofeo di Gattuso è una rivincita contro chi non lo ha mai apprezzato come tecnico, contro la Juventus che 2 anni fa gli negò questa gioia sulla panchina rossonera, contro chi vorrebbe tornare agli anni senza successi di Sarri, rinunciando così a questa squadra fredda e cinica che abbiamo apprezzato questa settimana. Prima ancora che di un titolo per il Napoli, è la rivalsa di un tecnico mandato via da Milano senza un vero e proprio motivo e al quale non è mai stato affidato un progetto veramente solido. Gattuso si è preso Napoli e il Napoli, battendo l’amato/odiato ex Sarri, e dalle parole dette ai giocatori dopo i rigori sembra proprio che non voglia smettere di vincere.
Andrea Esposito
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